Sotto la gestione Cagiva dei fratelli Castiglioni, Ducati decise di realizzare la prima moto con motore bicilindrico Desmo a quattro valvole.
Naturalmente, fu una scelta ambiziosa e non esente da rischi, tanto che in un primo momento, quando il prototipo allestito su ciclistica F1 e con cilindrata di 748 cc portato in gara da Lucchinelli, Ferrari e Garriga al Bol d’Or del 1986 si fermò alla quindicesima ora di gara per la rottura di una biella, si pensò addirittura di lasciar perdere.
Poi, però, i disegni di Massimo Bordi, padre del progetto, furono rivisti e alcune pecche di gioventù risolte, tanto da consentire a Lucchinelli di conquistare la Bike Week di Daytona con una velocità massima di 266 Km/h.
Insomma, era iniziata una nuova era. Come tutti i capitoli che compongono la storia della fabbrica bolognese, anche questo, tuttavia, non fu esente da difficoltà.
Non fu facile, infatti, allestire i primi duecento esemplari necessari della Ducati 851 per schierare lo spezzino, ex campione del mondo della classe 500, nella prima gara del Mondiale Superbike, che prese il via il 4 aprile 1988, sul circuito di Donington Park, in Gran Bretagna.
Dopo aver stabilito il quarto tempo in prova, Lucchinelli finì secondo alle spalle di Davide Tardozzi sulla Bimota in Gara-1 e si aggiudicò Gara-2, risultati che lo elessero automaticamente vincitore del primo appuntamento iridato del massimo campionato delle maximoto derivate dalla produzione di serie.
La moto fu approntata appena in tempo per l’appuntamento agonistico e fu previsto un lotto di duecento unità identificate dalla cilindrata effettiva, 851 cc, ottenuta con 92 mm di alesaggio e 64 mm di corsa, e da una distintiva livrea tricolore.
La componentistica era di tipo professionale, con dischi freno anteriori flottanti Brembo da 280 mm e pinze a quattro pistoncini, forcella Marzocchi M1R a steli tradizionali e cerchi Marvic da 16 pollici. Questi ultimi, in realtà, crearono qualche problema di guidabilità, tanto che, già nel 1989, furono rimpiazzati con altri da 17”.
Inoltre, nonostante nelle competizioni il regolamento favorisse i bicilindrici in termini di peso (oltre che di cilindrata) rispetto ai quattro cilindri giapponesi, la versione stradale non scendeva sotto i 200 Kg, con 204 a secco, mentre quella da corsa era intorno ai 150: valore che sarebbe ulteriormente sceso negli anni successivi.
In pratica, in ambito sportivo, Ducati aveva preferito tenersi del margine, cosa che si rivelerà strategicamente molto oculato, nel corso delle successive stagioni, per mantenere il predominio sui costruttori giapponesi. Dagli 851 cc iniziali, infatti, si passerà ben presto agli 888 cc sulle moto da gara, pur rimanendo ancora lontani dai 1000 cc consentiti, mentre il peso scenderà progressivamente fino ai 142 Kg imposti dal regolamento, per poi risalire in base ai cambi regolamentari richiesti dalle case nipponiche.
Ad ogni modo, la prima versione stradale del Desmoquattro garantiva 102 Cv a 9000 giri: un valore superiore a quanto ottenuto fino ad allora con il bicilindrico Desmo a due valvole, ma ancora ben lungi dal rappresentare il limite del nuovo propulsore.
Bastarono poche modifiche e il motore dell’Ingegner Bordi arrivò subito a quota 120 Cv, con i modelli da gara che, nell’anno del primo titolo iridato con il francese Raymond Roche (1990), superarono la soglia dei 130.
L’alimentazione era naturalmente affidata a un impianto di iniezione elettronica, anche se all’epoca ben lontana dall’affidabilità e, soprattutto, dalla sofisticazione elettronica cui siamo abituati oggi.
Il cambio era a sei marce, mentre per quanto riguarda la frizione venne mantenuta la caratteristica unità a secco che compariva già sulla 750 F1.
Il telaio rappresentò invece un’evoluzione sostanziale rispetto a quest’ultima, pur prevedendo ancora il traliccio di tubi in acciaio ad alta resistenza. Come detto, inizialmente, la bontà di questa struttura fu in parte penalizzata dai cerchi da 16”, che calzavano un massiccio pneumatico da 130/60 all’anteriore e, viceversa, una relativamente stretta (in rapporto alla cavalleria) copertura posteriore da 160/60.
Nel primo allestimento, il serbatoio aveva una capacità di ben 22 litri, ridotti poi a 17, valore comunque più che sufficiente a garantire la dovuta autonomia. Anche nella definizione estetica, infine, la 851 fu dotata di quegli elementi che la rendevano immediatamente riconoscibile come una vera Ducati. Forme sinuose dunque, anche un po’ abbondanti, che facevano da contrasto con i gruppi ottici squadrati, provenienti dal settore automobilistico, sia davanti che dietro.
La prima versione non era certo esente da difetti, ma rappresenta la capostipite, oltre che un pregiato pezzo da collezione.
L’impianto di scarico era di tipo due in due e contava su due lunghi silenziatori conici verniciati di nero che si rifacevano alla tradizione maturata a partire dai primi bicilindrici a coppie coniche (già dai primissimi anni Novanta, infatti, verranno adottati i classici sistemi composti da collettore e silenziatore a sezione costante in voga tuttora).
Il forcellone, invece, era caratterizzato da una capriata di rinforzo inferiore che, sui successivi modelli di serie, sparirà, pur mantenendo il classico cinematismo che aziona il monoammortizzatore attraverso un archetto montato su uniball.
All’inizio, anche in configurazione stradale, la moto era allestita con un codone rigorosamente monoposto e senza pedane per il passeggero, secondo il concetto, ben noto a Borgo Panigale, di race replica.
A livello commerciale, la prima 851 stradale non rappresentava certo una moto economica, visto che venne proposta a un prezzo assai elevato in virtù della sua stretta parentela con la moto da gara e del basso numero di esemplari in cui fu prodotta.
Ciononostante, le prime Desmoquattro che arrivarono dalle concessionarie, senza contare quelle che furono ordinate prima ancora di essere costruite, andarono letteralmente a ruba e, come se non bastasse, hanno acquisito grande valore nel tempo.
Foto Photoservice Electa – Alessandro Barbanti
Gianluigi Mengoli: la genesi del Desmoquattro
di Lorenzo Miniati
In ambito motociclistico, il propulsore ha un’importanza fondamentale, predominante rispetto al resto del veicolo. Il motore è infatti l’elemento principale che determina le prestazioni di una moto e come tale viene percepito come la vera e propria anima del mezzo, il cuore pulsante che lo fa muovere. Per quanto possibile, nel caso del Desmoquattro, questa circostanza acquista una valenza ancora maggiore. Nell’ambito della produzione stradale Ducati, il bicilindrico della 851 è il primo, oltre a impiegare le quattro valvole insieme al comando desmodromico, ad essere alimentato tramite un sistema di iniezione elettronica e a prevedere il raffreddamento a liquido. Una vera rivoluzione, dunque, che vide coinvolti pochi personaggi fondamentali all’interno dell’Ufficio Tecnico di allora, che già non era particolarmente affollato.
Gianluigi Mengoli, oggi Direttore Tecnico Motore nonché presidente della Fondazione Ducati, è uno di questi: “Il progetto del Desmoquattro è nato non dico per caso, ma senza una volontà precisa, – esordisce Mengoli – come dimostra il fatto che i primi carter furono fusi in terra, senza un’attrezzatura definitiva. E’ stata una specie di scommessa che, alla fine, per fortuna è stata vinta, altrimenti la Ducati avrebbe fatto una brutta fine!”
Mengoli si riferisce al momento di crisi che l’azienda bolognese viveva verso la metà degli anni Ottanta, quando era stata appena sottratta alla gestione statale dalla Cagiva dei fratelli Castiglioni. Nonostante ciò, Ducati aveva bisogno di maggiori prestazioni per confrontarsi con la concorrenza giapponese, visto che la pur ottima 750 F1 cominciava a segnare il passo. “Il nostro primo obiettivo era semplicemente quello di correre al Bol d’Or. Poi, se il progetto si fosse rivelato valido, avremmo potuto continuare con lo sviluppo. C’era infatti una parte della dirigenza, e lo stesso Ingegner Taglioni, che manifestavano una certa perplessità nei confronti del Desmoquattro. Così, per un certo periodo, dovetti addirittura realizzare i disegni a casa, in attesa che la situazione si sbloccasse!“
Il debutto della 748, portata in gara da Lucchinelli, Garriga e Ferrari, non sciolse tutti i nodi, visto che fu caratterizzato da un ritiro per guasto tecnico alla quindicesima delle ventiquattro ore previste. Mengoli ci tiene a precisare che, in quell’occasione, a cedere fu una biella e non un componente delle teste, che era la parte significativa del progetto. Un altro dei problemi con cui dovette scontrarsi fu la forte carenza di fondi messi a disposizione per finanziare l’operazione.
“Non solo non era facile realizzare un motore completamente inedito rispetto a ciò che avevamo fatto fino a quel momento, ma dovevamo riuscirci facendoci bastare i pochi soldi che avevamo! – spiega Mengoli – Come molti sanno, Bordi si recò presso la Cosworth per chiedere un preventivo, ma gli spararono una cifra talmente alta che quando tornò in fabbrica disse che potevamo benissimo fare tutto da noi, dal momento che le capacità non ci mancavano. Per questo, ad esempio, quando ho disegnato i gruppi termici ho fatto in modo che fossero identici per i due cilindri, così da abbassare i costi di industrializzazione. Allo stesso modo, molti pezzi sono stati realizzati apposta affinché potessero essere utilizzati anche su altri tipi di motore.“
Nel disegnare i principali componenti del Desmoquattro, Mengoli si concentrò ovviamente sulle teste e sulla parte relativa alla distribuzione, mentre Vincenzo Marolla, che è tuttora all’interno dell’Ufficio Tecnico, lo spalleggiò nel disegno di altri particolari. Così, quando fu definitivamente dato il via libera al progetto, con l’ovvia benedizione di Massimo Bordi, ci fu grande collaborazione ed entusiasmo sia tra le persone che lavoravano in Ducati che tra i fornitori che supportarono il tutto a livello tecnico, come appunto la Marelli per quanto riguarda l’impianto di iniezione elettronica.
“Ricordo che la prima persona ad aver visto i disegni del Desmoquattro a casa mia fu Francesco Villa, che io stimavo per le sue doti di pilota e tecnico. Per citare un altro aneddoto, posso dire che la pompa dell’acqua, che è praticamente la stessa impiegata tuttora sulla 1198 con qualche modifica, fu disegnata sulla base dell’esperienza maturata nella progettazione dei motori diesel raffreddati ad aria. Come dire: non tutto il male viene per nuocere!“
Mengoli pone infine l’accento sul fatto che i successivi aumenti di cilindrata vennero fatti per piccoli passi, nonostante il regolamento Superbike consentisse di arrivare subito a 1000 cc, perché all’epoca non esistevano i sistemi di calcolo odierni e l’affidabilità andava verificata un passo alla volta, senza contare che, spesso, per i ben noti motivi legati alla mancanza di tempo e soldi, queste maggiorazioni venivano effettuate sulla base dei motori precedenti, perché non si poteva realizzare tutto ex novo.
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