Come abbiamo visto nella scorsa puntata il regolatore di tensione svolge la funzione di elaborare la corrente prodotta dal generatore in modo che le sue caratteristiche (intensità e tensione) rientrino nei valori di progetto e, soprattutto, possano essere accumulate senza problemi nella batteria. Il termine esatto, infatti, per definire quest’ultima è quello di “accumulatore elettrico”.
La dizione “batteria” deriva dal fatto che, in realtà, essa non è costituita da un unico accumulatore, ma da una serie, ovvero una batteria, di accumulatori raggruppati. Si tratta, dunque, di un componente fondamentale della nostra moto, in quanto è un vero e proprio “serbatoio di energia”, indispensabile per permettere l’avviamento del motore e consentire il corretto funzionamento dei diversi dispositivi elettrici ausiliari.
Ciascun singolo accumulatore che compone la batteria costituisce una cella elettrolitica, ovvero un insieme di elettrodi o piastre costituite da biossido di piombo sull’elettrodo positivo e piombo spugnoso sul negativo, immerso in una soluzione elettrolitica. Quest’ultima è sostanzialmente una miscela di acqua e acido solforico nella quale sono liberi degli ioni, vere e proprie cariche elettriche.
Ogni cella, collegata all’adiacente, è in grado di fornire o immagazzinare energia grazie al processo chimico di ossido-riduzione e vi è dunque una stretta relazione tra la densità della soluzione elettrolitica e la tensione approssimativa ai capi della batteria. Quella appena descritta è la classica batteria al piombo: il tipo più economico e diffuso sia sulle moto che sulle auto.
Negli ultimi anni si sono diffusi alcuni tipi di batterie più versatili e funzionali, come quelle sigillate o “senza manutenzione”, oppure le batterie a secco e al gel che, non contenendo liquidi all’interno, possono essere posizionate senza particolari restrizioni.
Dato che in questi ultimi casi la manutenzione è praticamente azzerata, ci soffermeremo di più sulle batterie tradizionali, che peraltro rappresentano lo standard sulla maggioranza delle Ducati in circolazione, specie se non recentissime.
Le caratteristiche della batteria della moto
Prima di tutto è bene ripassare (o imparare) i rudimenti necessari per poter assolvere bene al nostro compito di appassionati in garage.
La principale caratteristica di una batteria è la tensione nominale, che peraltro nel nostro caso è pari allo standard di 12 Volt; è sempre bene verificare, se si usano strumenti eventualmente dedicati anche agli autocarri, che la tensione sia impostata su tale valore e non su 24 Volt. La carta d’identità della batteria è completata dalla sua capacità: essa rappresenta la quantità di elettricità che la batteria stessa può erogare prima che la tensione totale si abbassi al di sotto del valore finale.
Infatti, la sua capacità varia con la durata della scarica ed è espressa in amperora (Ah). Come nel caso di un vero e proprio serbatoio, la capacità corrisponde dunque alla quantità massima immagazzinabile.
Vi è poi un altro parametro molto meno noto, ma altrettanto importante: è la corrente di spunto, cioè il picco massimo di corrente erogabile, per un arco di tempo breve, come ad esempio all’avviamento del propulsore. In genere, la corrente di spunto ha un’intensità pari a circa 6 volte la capacità della batteria: nel caso della classica batteria Ducati da 16 Ah, la corrente di spunto è di circa 100 A (Ampère).
Spesso si dimentica che si tratta di un componente costretto a un lavoro assai gravoso, dovendo subire continui cicli di scarica e carica, e quindi soggetto a perdere di efficacia con le scomode conseguenze facilmente immaginabili.
Batteria scarica: è da buttare?
Una batteria scarica non è necessariamente una batteria da sostituire. Diciamo che una batteria conclude la sua vita utile quando non accetta più la ricarica. La situazione più grave potrebbe verificarsi con la completa scarica della batteria: in queste condizioni l’elettrolito aggredisce il piombo delle piastre e si possono verificare cortocircuiti interni tali da non consentire la successiva ricarica.
Le batterie al piombo si scaricano anche se non collegate ad alcun utilizzatore. Questo processo prende il nome di autoscarica. Il processo è fisiologico e causato da reazioni elettrochimiche parassite, principalmente influenzate dalla temperatura e dai materiali impiegati nella costruzione dell’accumulatore.
Ovviamente, quanto più tempo si lascia inutilizzata la batteria (ossia non viene sottoposta a ricarica), tanto più la batteria risulterà scarica. Ci riferiamo a una batteria al 100% dello stato di carica, mentre nel caso di una batteria già parzialmente scarica, il tempo necessario al completo azzeramento si accorcia drasticamente.
Il fenomeno, per quanto inevitabile, si argina ricaricando la batteria periodicamente tramite un caricabatteria o, meglio, tenendola sempre attaccata a un manutentore, un particolare caricabatteria in grado di fornire corrente regolata e di bassa intensità. In questo modo, lo stato di carica è mantenuto entro limiti accettabili (mai inferiore all’80%).
Un altro fenomeno responsabile della diminuzione delle prestazioni della batteria è la solfatazione: questo processo consiste nella formazione di grossi cristalli di solfato di piombo e si verifica in quegli accumulatori al piombo che presentano uno stato di carica inferiore al 50%.
La solfatazione produce effetti che possono perdurare e alle volte addirittura divenire irreversibili, aprendo le porte a un degrado più repentino dell’accumulatore. Infatti, la solfatazione riduce sì le prestazioni, ma soprattutto l’accettazione della ricarica.
Una batteria parzialmente solfatata può ripristinarsi tramite ricarica a bassa corrente, ma il più delle volte non rimane altro da fare che sostituirla.
La capacità (nominale) di una batteria è precisamente definita come la quantità di carica elettrica che la batteria è in grado di erogare in un certo tempo con corrente costante di scarica lenta, alla temperatura di 25 °C, fino al valore di tensione finale di 10,5 Volt.
L’indicatore della “salute” del nostro accumulatore è lo stato di carica, che è il valore della quantità di capacità, espressa in percentuale della capacità nominale, “contenuta nella batteria” ed erogabile nelle condizioni standard.
Lo stato di carica è direttamente proporzionale alla concentrazione dell’elettrolito (più la batteria è scarica, più l’acido solforico si è scisso per creare solfato di piombo, acqua e corrente, meno è concentrata la soluzione dell’elettrolito).
Per noi motociclisti è assai comodo misurare la tensione a vuoto misurata ai morsetti della batteria: essa è proporzionale alla concentrazione dell’elettrolito per cui fornisce un indice abbastanza affidabile della carica della batteria. Si consiglia di misurare la tensione ai morsetti solo dopo qualche ora dalla ricarica o dall’aver fermato la moto.
Carica della batteria della moto
La batteria si può ricaricare alimentandola con corrente continua a tensione costante. Per la nostra classica batteria con tensione nominale di 12 V, la tensione di ricarica è di 13,8 V. La corrente di ricarica deve essere limitata a circa 1/10 della capacità della batteria.
Sempre nel caso della classica unità da 16 Ah in dotazione a molte Ducati, la corrente di ricarica non deve superare il valore di 1,6 A. Il tempo di ricarica si ottiene moltiplicando la corrente erogata per il numero di ore necessarie al raggiungimento della capacità della batteria; ad esempio, per la capacità di 16 Ah, esso è di circa 17 ore.
La specifica sulla corrente di ricarica sconsiglia l’uso di caricabatteria per automobili, dato che questi permettono di erogare una corrente maggiore in virtù del fatto che le batterie da auto hanno capacità molto elevate. Esistono in commercio numerosi modelli di caricabatteria, alcuni molto semplici, altri a controllo elettronico: l’importante è sceglierne uno con parametri adeguati alle proprie necessità.
La ricarica si effettua, laddove possibile, rimuovendo i tappi dei singoli elementi. Le batterie da moto hanno in ogni caso uno sfiato supplementare che, una volta montate, deve essere sempre saldamente collegato a un tubicino diretto verso il terreno.
E’ buona norma staccare prima il polo negativo e poi quello positivo, procedendo al contrario per ogni successivo ricollegamento, quindi attaccare il caricabatteria alla rete.
La carica si ritiene completa se, a temperatura costante, la densità dell’elettrolito e quindi la tensione misurata ai poli si mantiene costante per almeno tre letture distanziate di un’ora (cioè se per tre ore consecutive non aumenta più).
Poiché nel processo di ricarica si verifica una modesta ebollizione della soluzione elettrolitica, è bene aerare il locale dove si opera e controllare che la temperatura della batteria non cresca al di sopra dei 55°-60°. Durante il processo si sviluppa idrogeno gassoso, che è fortemente esplosivo se miscelato all’aria: sono quindi bandite scintille e corpi incandescenti, come ad esempio le sigarette!
E’ bene evitare il protrarsi della carica oltre il limite descritto, poiché così facendo si provoca la dissociazione dell’acqua in soluzione e una consistente perdita di massa attiva per il deterioramento degli elettrodi, oltre a un sempre più elevato pericolo di esplosione.
Ovviamente, va sempre mantenuto sotto controllo il livello della soluzione, che deve sovrastare le piastre interne di almeno 5 mm, soprattutto dopo un’operazione di ricarica prolungata.
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