La Ducati è Campione del Mondo nella MotoGp. Cinque anni sono bastati perché il marchio di Borgo Panigale arrivasse sul tetto del mondo. Un arco di tempo straordinariamente breve, talvolta neanche sufficiente, pure per chi, smarrita la competitività, si mette a lavorare per ritrovarla.
Cinque anni nei quali, a parte la stagione 2003, la Desmosedici ha dimostrato la propria consistenza e nei quali Ducati Corse ha imposto la propria moto come alternativa temibile all’imperante dominio delle compagini giapponesi, che non subivano sconfitte nella massima categoria dal 1974.
La Desmosedici, fin dal debutto, ha messo paura alla concorrenza. Non era un obiettivo facile, ma era l’unico al quale la Ducati non potesse sottrarsi scegliendo di cimentarsi nella massima categoria dello sport motociclistico su pista. Mettere paura, lottare ad armi pari, popolare i primi posti delle classifiche: con la decisione di partecipare alla classe regina, non era lecito impegnarsi che per questi risultati.
Era l’inizio del 2003 quando Capirossi stupì il mondo nei test Dorna di Barcellona, mettendo una Rossa là davanti. Tutti capirono che il progetto era nato sotto i migliori auspici.
In questo articolo cerchiamo di andare ancora più indietro nel tempo, alla ricerca delle premesse dell’impegno della Ducati nella MotoGP, dell’evoluzione dei fatti e delle fondamenta anche tecniche sulle quali si basa la vittoria di Stoner.
Il punto di partenza di tutto è quel grande cambiamento nell’approccio alle competizioni operato a Borgo Panigale con la creazione di Ducati Corse, una società per certi versi autonoma, voluta fortemente da Claudio Domenicali, in grado di concepire un metodo più scientifico per la progettazione di moto da corsa, che si potesse avvalere dei mezzi più sofisticati oggi disponibili e del personale che sapesse individuarli e usarli. Ducati Corse nasce nel 1999, proprio quando l’argomento che tiene banco è l’introduzione delle nuove regole nella massima categoria. Il dibattito in Ducati, all’inizio, è se impegnarsi o no nella MotoGP.
Fu l’Ingegner Massimo Bordi a parlarci per la prima volta di queste discussioni, quando ancora il nuovo regolamento era lontano dall’aver definito gli standard tecnici che avrebbero caratterizzato le moto.
Bordi sosteneva che, se mai la Ducati fosse entrata in MotoGP, lo avrebbe fatto con un bicilindrico.
Bordi ci disse che la Ducati si sarebbe impegnata solo se si fosse permesso di schierare i bicilindrici. L’Ingegnere manifestò, dunque, la ferma volontà dei vertici di Borgo Panigale di impegnarsi solo se si fossero potute mantenere quelle specifiche strategicamente fondamentali che identificano la Ducati nella mente degli appassionati di tutto il mondo.
Il dibattito, in Ducati, partiva da queste premesse che, con il senno di poi, avrebbero portato all’esasperazione (allo stadio di prototipo) della moto che permetteva di vincere così tanto in Superbike.
Queste discussioni, tuttavia, non si fermarono qui. Il regolamento fu definito e dava la possibilità anche ai bicilindrici di scendere in lizza.
Pur gelosi delle caratteristiche che identificavano le loro moto – il bicilindrico ad “L”, la distribuzione Desmo, il telaio a traliccio e, non ultimo, l’inconfondibile sound – il dibattito portò alla decisione di lasciare liberi i progettisti di simulare varie tipologie di motore e di veicolo per poter perseguire l’unico obiettivo possibile, chiaro fin da subito: vincere.
L’approccio nuovo di Ducati Corse aveva portato i primi frutti e a prevalere fu la linea innovativa su quella più tradizionalista e conservatrice.
Nel 2001 la Ducati annunciava ufficialmente che si stava preparando a impegnarsi nella massima categoria dei GP.
Fu Federico Minoli a renderci partecipi, all’indomani dell’annuncio, di quello che stava bollendo in pentola.
In pratica, i progettisti, capitanati dagli Ingegneri Claudio Domenicali e Filippo Preziosi, lasciati liberi di configurare la nuova moto, simularono varie soluzioni, senza escludere a priori il bicilindrico.
Quest’ultimo avrebbe rappresentato un’alternativa troppo al limite, come ebbe modo di sottolineare Minoli, affermando anche che ormai l’idea era quella di non avere vincoli alla possibilità di competere con un mostro quale era la Honda, in quanto nessuno si illudeva che fosse facile batterla.
Il motore stava nascendo in maniera diversa da quella alla quale, in Ducati, si era abituati, con un grandissimo lavoro al computer, con tempi di sviluppo senz’altro più lunghi, ma che avrebbero accorciato la fase di collaudo al banco.
In pratica, – proseguiva Minoli – se gli ingegneri fossero stati bravi nell’impostare quella fase di studio, sarebbe stato molto più facile correggere eventuali difetti evidenziati durante le prove al banco.
Nel frattempo, ci si interroga sui piloti che la Ducati avrebbe chiamato a portare la sua moto al debutto. Si cerca un pilota italiano di vertice, nel momento in cui tre nostri connazionali si dividono i primi tre posti in classifica della 500: Rossi, Capirossi e Biaggi.
Non è un mistero che si tenti di accaparrarsi uno di loro ed è ferma volontà della Ducati di perseguire due obiettivi: avvalersi di un pilota di vertice, per non avere scuse circa un’eventuale situazione di scarsa competitività, e portare un pilota italiano a vincere su una moto italiana.
Intanto, Ducati Corse lavora sul progetto, perseguendo anche il fine di formare una squadra di tecnici, provenienti dalla realtà delle università italiane, capaci di acquisire l’esperienza nell’utilizzo dei sussidi alla progettazione e allo sviluppo, così da mettere a punto più velocemente una moto da corsa.
Domenicali crede fermamente nei giovani che si formano nelle nostre università ed è lui ad aver spinto verso la decisione dell’impegno in MotoGP, asserendo che i rischi della scelta di partecipare fossero ben minori per l’Azienda rispetto a quelli inerenti al rimanerne fuori. Così, nel 2002, si parla della nuova moto, concepita grazie all’ampia libertà che i progettisti hanno avuto, realizzando il progetto seguendo un imperativo: il concetto di integrazione.
Il motore, quattro cilindri, quattro tempi, di 989 cc, con l’angolo di 90° fra le bancate disposte ad “L”, è stato progettato in funzione delle esigenze del veicolo e tutto è stato concepito in base alla posizione del pilota in sella.
La Desmosedici GP3 nasce compatta, pensata attorno a chi deve portarla al limite, per agevolare la massima libertà di movimento in curva e per consentire l’assunzione della più efficace posizione in rettilineo.
Ad eseguire gli studi aerodinamici è chiamato Alan Jenkins, tecnico con decennale esperienza in Formula 1.
Si arriva così al giovedì precedente il GP d’Italia del 2002. Finalmente vengono rivelate alla stampa le forme della Desmosedici, che prende il nome dallo storico sistema di distribuzione e dalle quattro valvole per cilindro.
La moto nasce dalle premesse delineate da una situazione di crescita economica di un’azienda che, soltanto nel 1996, era sull’orlo del fallimento e dalla passione – elemento ritenuto indissolubile da ogni altro aspetto – per le competizioni.
Fortemente caratterizzata dal DNA tipico di ogni Ducati, si punta su questa moto per poter attingere a un know-how immenso, che abbia ricadute certe sulla produzione di serie anche dal punto di vista stilistico.
Alla presentazione, nonostante voci che vogliono Max Biaggi in procinto di passare alla Ducati, c’è Loris Capirossi, a quell’epoca impegnato con la Honda del Team Pons.
I numeri forniti alla conferenza stampa sono da capogiro, così come le forme della moto, una volta tolto il drappo rosso che la ricopre: 30 milioni di Euro il budget previsto per l’impegno nel campionato 2003, 150.000 le ore dedicate alla progettazione dall’inizio alla vigilia della prima gara a Suzuka, così come, nello stesso lasso di tempo, saranno 20.000 i Km di test in pista, 18.000 giri/minuto (il più alto regime di rotazione mai raggiunto da un motore a distribuzione desmodromica)… solo per citarne alcuni.
La Desmosedici, partita dalle premesse di massima libertà concessa ai progettisti, nasce inequivocabilmente Ducati.
Sarà Filippo Preziosi stesso a svelarci come, nell’universo delle scelte possibili, si sia arrivati a mantenere tutti gli elementi caratterizzanti la produzione storica Ducati dagli anni Settanta a oggi, tranne uno: il bicilindrico.
Preziosi ci racconterà che, dopo aver studiato a fondo il regolamento, mantenendo un approccio mentale il più libero possibile, si era cercato di simulare la prestazione come tempo sul giro della moto, in funzione delle varie tipologie di motore.
Furono ipotizzati motori a due cilindri, a tre, a quattro, a cinque, a sei… per scoprire, poi, confrontando i dati, che l’aumento delle prestazioni sul giro era certamente proporzionale al numero dei cilindri, ma si appiattiva intorno alla configurazione a quattro. Scartate le altre ipotesi, erano rimaste in lizza le configurazioni a tre, a quattro e a cinque cilindri, che erano quelle che avrebbero permesso di ottenere la potenza necessaria per ben figurare sui circuiti del mondiale.
Era da scegliere quella che si integrasse meglio con la moto e il pilota.
Per definire la Desmosedici a partire dal classico foglio bianco, per prima cosa è stato disegnato il pilota.
Moto, motore e pilota, studiati assieme avrebbero portato a configurare l’architettura del motore. Fu così che, come racconta Filippo, considerato che l’errore più grande era quello di progettare un motore senza introdurre considerazioni relative al veicolo, la prima cosa che fu disegnata sul foglio di carta fu il pilota.
Questo studio portò a considerare il quattro cilindri a “V” come soluzione molto buona.
In particolare, per collocare bene l’airbox, la soluzione a “L” permetteva tutta una serie di vantaggi. Fu un Preziosi divertito a raccontarci come, da un’analisi completamente libera, furono delineate due scelte, una delle quali di rottura con la tradizione (il quattro cilindri) e l’altra di continuità, ovvero la disposizione ad “L”: una configurazione adottata, da principio, per ottimizzare lo smaltimento di calore del cilindro posteriore quando il raffreddamento era ad aria, e tornata alla ribalta in base a nuove considerazioni e premesse.
E il sistema desmodromico? Quali erano le premesse che ne avevano confermato la validità?
In pratica, ebbe modo di spiegarci il Direttore Tecnico di Ducati Corse, stabilita la potenza che il motore avrebbe dovuto erogare, si era passati alla scelta dell’alesaggio.
Per ottenere una certa potenza bisognava avere un certo alesaggio totale e, quindi, si sarebbe arrivati a quello del singolo cilindro e poi al valore della corsa. Una volta nota la corsa, per ottenere una potenza elevata si dovettero considerare delle elevate velocità medie del pistone e, quindi, considerando valori piccoli di corsa, ci si ritrovò con un numero di giri elevato, superiore a 16.000.
La domanda che si fecero gli ingegneri di Ducati Corse fu questa: quale sistema di distribuzione avrebbe consentito un controllo preciso dei vari organi a un regime così elevato?
I sistemi erano tre: a molla, pneumatico e Desmo. La risposta che fece scartare le molle venne dalla Formula 1: le molle cominciano ad avere dei limiti a regimi di questa entità. Finché il limite di rotazione è intorno ai 16.000 giri, le molle continuano a funzionare, oltre questo regime, si hanno dei fenomeni di sfarfallio, ovvero – per dirla in soldoni – le valvole non riescono a essere chiuse o aperte secondo le esigenze del motore.
Nella massima categoria dell’automobilismo utilizzano tutti le valvole pneumatiche, che hanno dimostrato di funzionare egregiamente.
In Ducati furono paragonati il sistema pneumatico e il sistema Desmo, arrivando alla conclusione che il sistema pneumatico andava dimensionato, affinché fosse in grado di chiudere le valvole, ad esempio, a 18.000 giri, regime massimo dichiarato per la Desmosedici. Occorrono centinaia di chili di spinta per chiudere le valvole a questi regimi, quindi, qualora si fosse pensato di mettere una molla pneumatica così dura, sarebbe stata sovradimensionata mentre il motore ruotava a 7000/8000 giri.
E’ qui che si vede l’approccio degli ingegneri di Ducati Corse, che partirono dal concetto iniziale di dover costruire una moto: in Formula 1, i motori girano quasi sempre a pieno regime, mentre il motore di una moto viene fatto girare molto di più a gas parzializzato.
Quando si è a pieni giri, i due sistemi assorbono potenza in maniera comparabile, ma se si è a regimi molto più bassi, con il sistema pneumatico ci si porta dietro consumi di energia inutili che si riflettono poi sul consumo della benzina.
Così, la scelta di mantenere il Desmo, incentivata dalla grande esperienza che storicamente Ducati aveva maturato circa questo particolare tipo di distribuzione, ancora una volta nacque da considerazioni capillari e libere degli ingegneri e andò a caratterizzare le Desmosedici non per imposizione, ma per scelta, così come fu per Fabio Taglioni nel 1958.
Da ultimo il telaio a traliccio, scelto per la grande esperienza che i tecnici di Ducati Corse avevano maturato in anni di impegno in Superbike.
E’ sempre Preziosi a raccontarci che questa scelta tecnica scaturì dall’esigenza di poterne variare facilmente la rigidezza, cambiandone lo spessore dei tubi.
Il resto è storia degli ultimi cinque anni di gare, una storia fissata e cristallizzata dalle classifiche, costruita in base alle idee di uno splendido gruppo di tecnici e dirigenti che hanno permesso ai piloti di presentarsi primi sotto la bandiera a scacchi: Capirossi che dapprima sorprese il mondo, Bayliss che ebbe modo di dare tanto di quel gas e Stoner, il più somigliante forse al pilotino che Preziosi aveva disegnato prima di ogni altra cosa sulla carta…