Desmo Infinito: forma e funzione

Desmo Infinito: forma e funzione

Desmo Infinito, una moto da sogno realizzata sulla base tecnica della 999 S. E’ il suo stesso designer a illustrarci come ha preso forma.

Il progetto Desmo Infinito, che potete apprezzare nelle immagini, nasce come conseguenza di una mia precedente opera, ribattezzata Chimera. Il mio approccio, in questo caso, riguardava l’assimilazione dei punti cardine già sperimentati su quest’ultima (cioè l’idea dell’ibrido, i rapporti tra le forme con chiari riferimenti all’anatomia), e il loro affinamento, nel tentativo di realizzare un oggetto di design industriale, senza perdere tuttavia le caratteristiche di personalità che distingueva il precedente lavoro.

La base di partenza di questo progetto è costituita da una Ducati 999 S del 2005, ultima evoluzione di un modello accolto dal pubblico in maniera contrastante. Tralasciando il lato estetico, sono infatti convinto che, con la 999, Pierre Terblanche abbia progettato una delle migliori Ducati mai realizzate dal punto di vista ciclistico.

La struttura del veicolo, ossia lo “scheletro”, non presentava pertanto punti deboli. Ho preferito, dunque, lasciare tutto originale, anche perché la “reversibilità” costituiva uno degli elementi cardine del progetto.

Le sovrastrutture dovevano essere sostituibili con estrema facilità, utilizzando esclusivamente i punti di fissaggio originali. Con questi presupposti, ho cominciato a disegnare le prime forme.

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Le forme della Desmo Infinito sono ispirate all’anatomia degli animali, vedi le “narici” ricavate sul cupolino.

Spesso mi chiedo con quale criterio un designer si possa avvicinare a un oggetto tanto particolare come una motocicletta. Credo, infatti, che per poter disegnare una moto la si debba conoscere non solo a livello di pura tecnica, ma la si debba quasi “amare”.

Si deve riuscire a creare una simbiosi tra il corpo e la macchina. Il designer deve pertanto essere un motociclista e, nel caso di una sportiva, deve saper andare anche forte, per comprendere qual è il filo conduttore tra un volume statico, esteticamente valido, e il rapporto che si crea con il corpo umano nella guida al limite.

La moto non è un’auto, dove l’ergonomia si limita alla conformazione del sedile, alla distanza dei comandi e alla visuale. Nella moto si creano delle dinamiche molto più complesse: esistono spostamenti laterali per contrastare la forza centrifuga, movimenti in senso longitudinale in fase di frenata o in piena accelerazione.

Prima di plasmare la 999 S, dunque, ho cercato di comprendere quali fossero i suoi lati positivi e quali, invece, le sue carenze, sempre prendendo come riferimento l’interazione tra uomo e macchina.

Partiamo dall’ergonomia: per un pilota di stazza medio-piccola, diciamo sotto il metro e settanta di altezza, la 999 evidenzia una distanza tra il piano di seduta e i manubri troppo grande.

Le braccia risultano oltremodo dritte, con i manubri eccessivamente chiusi e inclinati verso il basso. Girando forte in pista, mi sono accorto dell’esigenza di avanzare verso i manubri, impossibilitato però dalla presenza del serbatoio, anch’esso eccessivamente lungo.

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Linee elaborate ma non barocche: ogni dettaglio della carenatura assolve contemporaneamente il “compito” richiesto dalla forma e dalla funzione.

L’evoluzione del serbatoio doveva quindi orientarsi verso un accorciamento in senso longitudinale e a questo andava affiancato un ulteriore rastremamento dei fianchi in corrispondenza della sella.

Sul modello originale, la sella risulta conformata in maniera interessante dal punto di vista estetico, con un’evidente restringimento nell’intersezione con il serbatoio, per poi prendere notevole larghezza con una linea quasi spezzata, assimilabile a un rapporto girovita-fianchi. Tuttavia, se l’occhio viene appagato, non si può dire altrettanto per le gambe del pilota che, una volta appoggiati i piedi in terra, non si sposano certo con le suddette forme.

La sella doveva dunque essere snellita nella parte posteriore, con il tentativo di riportare il tutto a un’idea di seduta da bicicletta. Così facendo, infatti, si sarebbe potuto alzare il piano di seduta, ovviando a una sgradevole sensazione di retrotreno troppo basso riscontrata sul modello originale, senza pregiudicare la possibilità di toccare bene per terra con le piante dei piedi anche per i piloti più bassi, grazie alla snellezza del telaio.

Per quanto riguarda il dimensionamento generale, chiunque abbia mai smontato, o visto smontare, una Ducati avrà certamente notato l’estrema compattezza del telaio a traliccio e le ridotte dimensioni del motore.

Con le sovrastrutture originali, questa sensazione di snellezza andava persa in favore di un’eccessiva massa visiva. L’incombenza degli specchietti, enormi e tutto sommato inutili dal punto di vista funzionale, esasperava il tutto.

A livello di stile, poi, le proporzioni dovevano essere ridotte. I volumi delle nuove sovrastrutture dovevano limitarsi a cingere la meccanica come un guanto, con un risultato assimilabile alla visione di un felino al limite della denutrizione, dove le ossa vengono coperte dai soli fasci muscolari intuibili dalla corta pelliccia.

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A sx: un particolare delle “narici” che Giordano Loi ha voluto ricavare sul cupolino della sua moto. A dx: l’uscita dei due silenziatori di scarico a trombone.

Il pensiero generale è stato, quindi, quello di “asciugare” gli spazi, creando delle linee diagonali che convergono verso l’avantreno, caratteristica assente sulla 999.

Per apprezzare le linee del modello originale, infatti, si deve porre la moto su un cavalletto centrale, alzando il retrotreno di circa 15 cm. Solo allora, come per magia, l’insieme assume la dovuta aggressività.

Dal punto di vista dell’analisi formale, i primi bozzetti sullo stile evidenziavano pertanto il desiderio di lasciare quanto più in vista la meccanica, giungendo all’incrocio ideale tra una superbike e una naked.

Il cupolino doveva essere molto basso, a costo di sacrificare la penetrazione aerodinamica, e un ulteriore elemento distintivo andava ricercato nei convogliatori dell’airbox, non più nascosti sotto le carene, ma lasciati sfacciatamente in bella mostra.

Il loro andamento sinuoso doveva convergere sul cupolino per formare delle autentiche fauci secondo il concetto di forma e funzione. La fibra di carbonio necessaria per la loro realizzazione, inoltre, non doveva essere verniciata, proprio per spostare l’accento sulla loro particolare funzione.

Un ulteriore segno distintivo, scultoreo, sono le “narici”, poste centralmente. Per i puristi, la loro presenza potrebbe dare luogo a discussioni, ma nel mio caso erano assolutamente indispensabili.

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Molto curati sono anche alcuni dettagli relativi alla parte prettamente tecnica, come il coperchio della frizione e le pedane regolabili in alluminio ricavato dal pieno.

Il progetto stesso ruota sul concetto di portare l’organico a una dimensione stilistica di design industriale. Di conseguenza, senza di esse si sarebbe persa l’identità stessa dell’opera.

Questo particolare sposta l’attenzione ad archetipi che ci accomunano e, a parer mio, riescono a coinvolgere maggiormente l’emotività dei fruitori, a prescindere dalle regole del design accademico.

Il gruppo serbatoio-codino rimarca i concetti descritti precedentemente. La vista dall’alto di questi elementi, infatti, riporta alla memoria una schiena. Il volume a Y del serbatoio trae ispirazione dal muscolo del trapezio, mentre i due incavi diagonali segnano il volume delle scapole. Spalle larghe e vita stretta: un insieme che rivendica forza.

Il codino, invece, parte stretto e, dolcemente, si allarga con un taglio che converge verso il centro. Vi è una chiara associazione alle dolci forme femminili, dunque, per poi terminare in un elemento triangolare, affilato e sfuggente come una pinna.

In questo modo, questi elementi vengono decontestualizzati dal concetto classico di sella e serbatoio. La loro immagine incarna l’idea dell’androgino, il principio maschile con quello femminile, caratteristiche che sintetizzano il concetto stesso di motocicletta.

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Giordano Loi, autore della veste estetica della Desmo Infinito, mentre osserva la sua creatura.

La vista laterale è dominata da linee sinuose che si rincorrono.

Si parte dal cupolino con lo sbalzo del muso, le cui linee si inarcano verso il basso centinando le guance, per poi proseguire con una diagonale verso l’alto che prima stringe e poi si allarga, disegnando così un piccolo orecchio curvo. Il convogliatore dell’airbox fa da sostegno al cupolino con un movimento a torcere su tutti e tre gli assi. Si tratta di un elemento che mi ha portato via molto tempo, sia per la riuscita formale, che per la complessità nel modellarne due simmetrici.

Se nell’insieme si fanno notare, infatti, è isolandoli nello spazio che si riesce a percepire la loro identità.

La carenatura abbraccia i convogliatori con un primo volume a sciabola (mi piaceva l’idea delle lame arabe, armi taglienti che appartengono alla tradizione della mia terra), con la funzione di deviare il flusso dell’aria dalle gambe del pilota.

A questo volume aggettante si contrappone lo spazio convesso dello sfogo per l’aria calda proveniente dal radiatore. Inizialmente, questo elemento andava diviso in tre pezzi, sfalsati fra di loro come delle branchie, ma poi ho preferito non calcare eccessivamente la mano con i segni.

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Un bozzetto realizzato a mano, per valutare l’impatto estetico generale.

Il taglio delle carene a sezione d’ala di aereo lascia in vista i carter motore, elemento distintivo dell’architettura Ducati, sviluppandosi in basso con un andamento a colpo di frusta caratterizzato da un primo volume a sperone, molto vicino alla ruota anteriore, che successivamente si rastrema per lasciare a vista il collettore di scarico del cilindro orizzontale, per poi prendere di nuovo importanza creando una sorta di ventre, che sfuma in una pinna.

Molto importante è la presenza, a vista, dei collettori di scarico, che per loro fattura ricordano le viscere animali. Anche in questo frangente, non è un caso se l’affinità formale coincide con la stessa funzione fisiologica.

Per quanto concerne la tecnica costruttiva, tutto il processo creativo è stato mutuato dalle tecniche scultoree apprese negli anni dell’Accademia.

Per la realizzazione dell’opera mi sono avvalso della malleabilità dell’argilla e della leggerezza della vetroresina, fatta naturalmente eccezione per i pezzi meccanici.

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Una foto scattata durante la fase di lavorazione del prototipo. Le forme sono ormai definitive, manca solo la verniciatura.

Gli attrezzi per la realizzazione di un’opera come questa sono un pezzo di legno piallato per delineare i piani, un coltello dentato per definire la materia e delle spatole in acciaio armonico per tirare le superfici. La vetroresina fissa poi i volumi che, con stucco poliestere e carta vetrata, danno vita al prototipo. In questo caso, non sono stati creati gli stampi del modello definitivo, dunque si tratta di un pezzo unico che si avvicina all’idea di “opera” piuttosto che a quella di prototipo industriale.

In pratica, il processo costruttivo non è diverso da quello di una qualsiasi scultura plastica. In questo caso, dunque, trattandosi di un prodotto di alto artigianato esso presenta dei piccoli difetti che lo distinguono da un pezzo industrializzato con l’ausilio del computer.

La simmetria, ad esempio, è stata affrontata non con l’ausilio di stampanti 3D, ma con la tecnica dei punti. Mi sono avvalso di livelle, compassi e, soprattutto, di tanto “occhio”, motivo per il quale ci sono volute circa 1000 ore di lavoro per arrivare al risultato attuale.

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