Verso la fine degli anni Cinquanta, Italia e Inghilterra rappresentavano due tra le maggiori potenze motociclistiche al mondo: erano gli anni in cui il Tourist Trophy era ancora inserito nel calendario del campionato del mondo e l’offensiva delle case giapponesi ancora di là da venire.
Una moto molto rara, della quale esistono pochissimi esemplari in tutto il mondo.
Questo dualismo tra il nostro Paese e la rappresentanza d’Oltre Manica si protraeva sia sul piano tecnico che umano, visto che interessava allo stesso tempo moto e piloti, e si svolgeva alternativamente sui “campi da gioco” dell’uno e dell’altro schieramento, teatro di battaglie che hanno reso leggendari alcuni tracciati come Monza e, appunto, il Mountain Circuit dell’Isola di Man.
Non mancavano tuttavia esempi in cui queste due “scuole” davano vita a risvolti “ibridi”, con piloti inglesi in sella a moto italiane e viceversa, fermo restando il clima di grande rispetto che caratterizzava questa sfida.
Un celebre esempio di come vi fosse un certo livello di integrazione tra questi due mondi è costituito dal caso del grande Mike Hailwood, che fin da giovane fu spesso alla guida di moto italiane, prima MV Agusta e poi Ducati.
La cosa curiosa, però, è che da quest’ultimo connubio è probabilmente nato anche un insolito mix tra l’eccellenza telaistica britannica di allora e le rinomate performance del monocilindrico Trialbero progettato dall’Ingegner Fabio Taglioni: a quanto pare, fu proprio il padre di Mike, Stan, a commissionare una delle pochissime Ducati 125 da GP con telaio Reynolds mai realizzate per affidarla al figlio.
L’esemplare protagonista di questo servizio è stato recuperato in Spagna dall’ex pilota nonché ex direttore sportivo della Mototrans Ricardo Fargas, che ne possedeva tuttavia solo il telaio, il basamento del motore e il cilindro: la testa è stata infatti completamente ricostruita da Massimo Del Biondo, specialista in materia, grazie anche ai disegni che lo stesso Taglioni gli ha affidato a suo tempo, in nome del forte rapporto di stima e amicizia tra i due, come testimonia anche l’autografo riprodotto sul cupolino.
In pratica, Del Biondo si è preoccupato di allestire nuovamente il veicolo sulla base del maggior numero di documenti che è riuscito a reperire, comprese delle foto che ritraggono questa moto in azione al Tourist Trophy del 1958 per mano di Romolo Ferri.
Il telaio Reynolds è immediatamente riconoscibile rispetto a quello Ducati per la doppia culla molto “aperta” nella parte anteriore, sulla falsa riga di quanto accadeva sulla Norton Manx, solo che il monocilindrico Ducati è talmente compatto che il telaio inglese sembra quasi sovradimensionato rispetto ad esso.
Oltre alle superiori doti di rigidezza, tuttavia, a fare la differenza sono le misure delle principali quote ciclistiche: da questo punto di vista, infatti, il telaio Reynolds era nettamente più evoluto rispetto all’unità Ducati, con un’inclinazione del cannotto di sterzo di 27°, anziché 32°, e un forcellone conseguentemente più lungo, che si traducevano in una guidabilità di tutt’altra efficacia.
Così configurata, la moto non solo si muoveva di meno sul veloce, alla luce di un motore che con i suoi 22 Cv era in grado di spingerla fino alla ragguardevole soglia dei 200 Km/h, ma risultava anche enormemente più precisa in ingresso di curva, facilitando non poco la vita del pilota, solo che i pochi esemplari realizzati non fecero in tempo a debuttare che la Ducati smise di impegnarsi nelle competizioni in forma ufficiale.
“Credo che oltre a questo ne siamo rimasti solo altri due esemplari: – spiega Del Biondo – uno in Inghilterra e un altro negli Stati Uniti, che però monta adesso un motore bialbero di 175 cc e dunque non è in condizioni di perfetta originalità. Oltre a Ferri e Hailwood, la 125 con telaio Reynolds fu guidata anche da Alberto Gandossi e Bruno Spaggiari, cosa che ne rende ancora più prestigiosi i trascorsi agonistici. Fargas mi ha detto che questa moto è rimasta chiusa in un garage spagnolo per quasi vent’anni, cosa che per certi versi ha rappresentato la mia fortuna, anche se è difficile capire come ci fosse finita. Quel che è certo è che, nel 1963, Franco Farné fu fotografato in Spagna insieme a una moto identica a questa. Grazie a quella foto, infatti, sono stato in grado di replicare l’intera colorazione fin nei minimi dettagli, decal comprese.”
Al di là della livrea, comunque, Massimo ha dovuto attrezzarsi per ricostruire anche altri particolari, come ad esempio l’impianto di scarico a tromboncino, commissionato a un professionista del settore, e le pedane, realizzate dallo stesso Del Biondo sulla base dei disegni originali.
Gli ammortizzatori sono Marzocchi, con molle coperte, mentre i freni a tamburo sono Amadori, in abbinamento a mozzi realizzati per l’occasione che si interfacciano a loro volta con cerchi Sanremo; anche la forcella idraulica con steli da 34,8 mm, sempre Marzocchi, fa parte della componentistica usata all’epoca sulle Ducati da Gran Premio, così come il manubrio e le relative piastre di sterzo, sopra le quali compare una sorta di piccolo registro che serviva a smorzare le reazioni dell’avantreno in caso di bisogno.
Il motore, invece, è il classico carter largo che, in virtù del suo impiego, poteva contare su un albero motore diverso e su cuscinetti di banco più robusti, oltre che sulla possibilità di impiegare un cambio a sei marce, anche se questo esemplare ne possiede soltanto cinque; allo stesso modo, l’alimentazione è affidata a un carburatore da 29 mm, ma in alternativa, quando si correva sui circuiti più lenti, poteva essere installata anche un’unità da 27 mm, mentre il diametro delle valvole è pari a 32 mm per l’aspirazione e 28 mm per lo scarico.
Per rendersi conto della meticolosità con cui Del Biondo ha effettuato il restauro, inoltre, basta guardare gli spessori che compaiono tra motore e telaio, tutti rigorosamente numerati tramite un’apposita incisione, in modo da avere la certezza di ottenere un perfetto assemblaggio una volta smontato il veicolo: “Il fatto è che con così pochi esemplari prodotti in quel periodo, non esiste una documentazione precisa di come fosse fatta veramente questa moto, perciò sono dovuto stare molto attento a non alterare quelle poche specifiche che erano rimaste originali.”
A dire la verità, in fatto di precisione, Massimo è andato anche oltre con le viti che fissano il plexiglas del cupolino, avvitate in modo tale che il loro intaglio risulti sempre orizzontale.
Dopo tutto, se si vuol realizzare una replica fedele, anche il più piccolo particolare riveste la massima importanza!
Foto di Enrico Schiavi
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