Sul finire degli anni Sessanta i monocilindrici Ducati erano ormai arrivati al culmine del loro sviluppo. Oltre quello sarebbe stato davvero difficile andare. Inoltre, in quello stesso periodo stavano iniziando ad affacciarsi sul mercato europeo le prime maximoto giapponesi, che avrebbero ben presto monopolizzato il settore.
Se voleva restare a galla, senza farsi scavalcare anche dalla connazionale Guzzi, già orientata verso il bicilindrico trasversale, la Casa di Borgo Panigale doveva reagire in qualche modo.
La risposta non si fece attendere e, come ben sappiamo, gli esiti furono quanto mai fortunati, sia in ambito agonistico che nella produzione di serie.
Oltre al successo nella 200 Miglia di Imola del 1972, con Paul Smart e Bruno Spaggiari davanti a tutti, il bicilindrico Ducati (che in seguito sarebbe stato soprannominato Pompone dagli appassionati) si affermò anche in ambito stradale.
Al tal proposito, si narra che la scelta del layout che poi ha caratterizzato i propulsori desmodromici fino ai giorni nostri sia stata frutto di un acceso dibattito tra l’Ingegner Fabio Taglioni e l’allora amministratore delegato dell’azienda bolognese, Arnaldo Milvio.
Sembra infatti che se da un lato non fosse in discussione il frazionamento a due cilindri, dall’altro non vi fosse identità di vedute sull’angolo che questi ultimi avrebbero dovuto individuare.
Sulla base di alcune sue esperienze precedenti, Taglioni pendeva a favore di una V di 60°, mentre Milvio, anch’esso ingegnere, voleva che il motore avesse un cilindro verticale e uno orizzontale (secondo una disposizione a L, appunto), adducendo motivazioni legate all’equilibratura delle forze interne e all’altezza del baricentro.
Alla fine, il progettista cedette alle pressioni del dirigente e disegnò il cosiddetto carter tondi, un motore talmente bello da far passare quasi in secondo piano la sua funzionalità.
In ogni caso, se mai ce ne fosse stato bisogno, il bicilindrico Ducati diede prova della sua validità dal punto di vista prestazionale fin dall’inizio.
Per dargli vita, infatti, Taglioni aveva in pratica preso quanto di meglio era a sua disposizione, replicando per due le misure caratteristiche e la distribuzione monoalbero a coppie coniche del motore monocilindrico.
In questo modo, si sarebbero ammortizzati i costi di industrializzazione, mantenendo le qualità sportive tipiche della produzione Ducati, vale a dire ingombri ridotti e peso contenuto.
Anche sul fronte dello stile ci fu uno sforzo per garantire una certa continuità rispetto alla produzione precedente. Del resto, gli elementi su cui “giocarsi” il design erano relativamente pochi, considerando l’impostazione delle moto di allora, concentrate su nient’altro che un serbatoio, due fianchetti e una sella. Per questo, come detto, anche il motore fu oggetto di cure e attenzioni, dal momento che rivestiva un ruolo estetico altrettanto importante rispetto al resto.
Le forme tondeggianti dei carter (da cui il nome) avevano dunque lo scopo di uniformarsi alle linee morbide ed eleganti delle sovrastrutture.
I primi studi furono condotti a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta e il primo prototipo fu presentato nel 1971. E’ così che nacque la GT 750, la prima maxi Ducati di serie.
Fin dall’inizio fu chiaro che, pur trattandosi di una granturismo (come recitava la sigla), le caratteristiche generali erano improntate a una certa sportività. Del resto, i numeri sulla carta parlavano di una potenza pari a 60 Cv, che spingevano la GT a una velocità massima di 200 Km/h. Un risultato di tutto rispetto per quegli anni.
Lo sviluppo della 750 GT fu velocizzato dalla necessità di omologare il modello di serie per partecipare alle competizioni.
All’alimentazione provvedeva una coppia di carburatori Amal Concentric con diffusore da 30 mm, il cambio era a cinque marce, il rapporto di compressione pari a 8,5:1 e la capacità del serbatoio di 17 litri (di cui 1,6 di riserva). Il basamento conteneva 4,5 litri di lubrificante e anche la frizione, a dischi multipli, sfruttava quest’ultimo essendo in bagno d’olio.
Per quanto riguarda la ciclistica, il telaio a doppia culla aperta in tubi era equipaggiato con una forcella teleidraulica e due ammortizzatori Marzocchi, mentre i freni erano affidati a un impianto misto, con il posteriore a tamburo da 200 mm e l’anteriore a disco da 280 mm.
Le ruote erano di diametro differente, con l’anteriore da 19″, equipaggiato con un pneumatico da 3,25″ su canale da 2″, e il posteriore da 18″ con pneumatico da 3,50″ e canale da 3″. L’interasse di 1500 mm e il peso a secco di 185 Kg, infine, sottintendevano l’agilità del mezzo.
Così come era stata concepita inizialmente, la GT rimase in listino fino al 1974, dopo di che fu sostituta dalla 860 disegnata da Giorgetto Giugiaro.
Foto Photoservice Electa, Alessio Barbanti
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