Dici Ducati e oggi pensi subito ai successi in MotoGP e Superbike, o in alternativa ai modelli della produzione di serie come la Panigale, il Monster e, in tempi più recenti, lo Scrambler.
Eppure, c’è stato un periodo neppure troppo lontano, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, in cui la Casa bolognese si è distinta non solo sui nastri d’asfalto, intesi sia come circuiti che come strade aperte al traffico, ma anche tra la fine e ondulata sabbia dei deserti, in quella meravigliosa avventura chiamata Parigi-Dakar che rubò il cuore a molti appassionati dell’epoca.
Una corsa tremendamente affascinante, ricca di incognite e pertanto rischiosa, ma che portava con sé il sapore delle imprese d’altri tempi; una competizione non solo sportiva, ma anche con se stessi, perché i piloti che vi prendevano parte dovevano mettersi alla prova di fronte a qualcosa di epico e maestoso come il deserto africano, un avversario senza dubbio ancor più temuto degli altri concorrenti in gara.
Fu così che anche la fabbrica di Borgo Panigale, all’epoca di proprietà dei fratelli Castiglioni, decise di cimentarsi in questa fantastica sfida, allestendo un mezzo assolutamente competitivo, che, pur esibendo il marchio Cagiva sulle sovrastrutture, era spinto dall’inconfondibile bicilindrico Ducati a due valvole con raffreddamento ad aria. Un impegno culminato con ben due vittorie, nel 1990 e 1994, entrambe per mano dello specialista friulano Edi Orioli in sella alla bellissima Elefant sponsorizzata Lucky Explorer.
“Cinque anni di sacrifici, delusioni e vittorie mancate per un soffio sono sembrati un prezzo più che accettabile per l’enorme soddisfazione e l’immagine che può dare una vittoria alla Parigi-Dakar. – ebbe a commentare l’attuale Amministratore Delegato di Ducati, Claudio Domenicali, in un articolo apparso sulla rivista MotoTecnica subito dopo la prima vittoria di Edi Orioli – E’ stata una lunga avventura, affascinante sul piano umano, ma anche su quello tecnico […] Facendo un quadro riassuntivo possiamo dire che l’evoluzione dei motori Ducati (nella Dakar, ndr) ha seguito due strade: prestazioni e affidabilità. Per ottenere le prime si è lavorato sulla cilindrata, sugli alberi a camme, sull’alimentazione e sulla camera di scoppio, mentre per quanto riguarda l’affidabilità si sono rivisti carter, cambio e frizione. In Ducati già si pensa alla prossima edizione…”.
Purtroppo, dopo la seconda vittoria di Orioli nel 1994, la Dakar iniziò a perdere progressivamente popolarità, complici sia la scomparsa del suo geniale ideatore, Thierry Sabine, che gli innumerevoli problemi sociopolitici legati ai paesi attraversati dal celebre rally africano, perciò anche il progetto Elefant, almeno in ambito agonistico, fu pian piano abbandonato.
Rimane quindi una testimonianza straordinaria di ciò che quel motore tanto apprezzato anche su strada, basti pensare al fatto che equipaggia tuttora modelli di grande successo come il Monster e lo Scrambler, riuscì a fare in una competizione massacrante come la Parigi-Dakar, a riprova, se mai ce ne fosse stato il bisogno, della sua notevole affidabilità e delle sue generose prestazioni.
I sette esemplari che vi presentiamo qui di seguito riassumono tutta l’evoluzione tecnica maturata dal propulsore tra il 1986 e il 1994: quasi dieci anni di sviluppo che hanno portato il primo Pantah di 750 cc a trasformarsi nel più moderno Desmodue di 904 cc con cui Orioli colse appunto la sua seconda e ultima vittoria in sella alla Cagiva motorizzata Ducati.
Un percorso tecnico interessantissimo, che ancora una volta sottolinea la grande flessibilità che ha sempre caratterizzato l’azienda bolognese quando si trattava di adeguare un progetto a uno specifico utilizzo, specie se legato al mondo racing.
E’ senza dubbio il campo in cui Ducati ha sempre dato il meglio di sé, dimostrando una prontezza di reazione, una capacità di adattamento e una fantasia ingegneristica che i suoi competitor le hanno spesso invidiato, al pari dei corrispondenti risultati sportivi.
Effettivamente, fu proprio quel misto di coraggio, incoscienza e un pizzico di sana follia che, in quegli anni, permise alla fabbrica di Borgo Panigale di fare la differenza laddove le risorse, viceversa, non erano così abbondanti.
Perché pensandoci bene, bisognava essere davvero un po’ folli per prendere un motore sviluppato per equipaggiare una moto stradale, per di più sportiva, e montarlo sul prototipo di una maxienduro per affrontare le peggiori insidie del deserto!
I motori Ducati alla Parigi-Dakar
Nel 1986, la Cagiva è al suo secondo anno di impegno nella Parigi-Dakar. Il bicilindrico Ducati ha il carter piccolo di serie, modificato nell’attacco al perno del forcellone, con raffreddamento ad aria, teste con cielo emisferico e valvole da 39,5 mm all’aspirazione, 35 mm allo scarico e albero a camme 105. Alcuni componenti vengono alleggeriti per ridurre il peso complessivo. Questa unità prevede avviamento a pedale (è priva di avviamento elettrico) e cambio a 5 marce ravvicinate. I coperchi valvole e i cappellotti delle camme sono in magnesio. Il pilota che ha portato in gara questa versione è Giampaolo Marinoni, il quale perse purtroppo la vita proprio nel 1986, dopo aver vinto due tappe del celebre rally africano, in seguito alle complicazioni sorte dopo una caduta a circa 40 Km dal traguardo, che non gli impedì comunque di portare a termine la gara.
Cagiva ci riprova l’anno successivo, il 1987, per mano del pilota francese Hubert Auriol, ma l’esito non è molto più fortunato. Quest’ultimo è infatti costretto al ritiro al via dell’ultima tappa mentre si trovava in testa alla corsa, a causa della frattura di entrambe le caviglie. Il motore ha il carter piccolo di serie modificato nell’attacco al perno forcellone, ancora più ribassato per aumentare la distanza da terra. Il raffreddamento è ad aria con teste con cielo emisferico e valvole da 39,5 mm all’aspirazione, 35 mm allo scarico e albero a camme 105. Il cambio è a 5 marce con rapporti ravvicinati. Anche in questo caso i coperchi valvole e i cappellotti sono in magnesio.
Il motore del 1988 ha il carter fuso in terra con coppa piccola. La zona del motorino di avviamento era destinata alla coppa dell’olio. Il raffreddamento è ad aria per le teste e a olio per i cilindri con radiatore sul veicolo. Il perno del forcellone avanzato ritorna ad altezza normale. La cilindrata è di 850 cc, la camera di scoppio è emisferica e le valvole sono da 39,5 mm all’aspirazione e 35 mm allo scarico con camma 105. Notare le scritte Ducati già aggiornate con i caratteri del Gruppo Cagiva di proprietà dei fratelli Castiglioni.
Il 1989 segna il debutto di Edi Orioli in sella alla Cagiva Elefant. Nonostante sia campione in carica della Dakar (nonché primo italiano a vincere la corsa africana), nel 1989 Orioli non va oltre il settimo posto. Il carter è fuso in terra con fissaggio teste a interasse largo. I cilindri sono maggiorati e, grazie alla corsa di 68 mm, la cilindrata sale a 904 cc. Le teste hanno il cielo trisferico di lavorazione meccanica con valvole da 43 e 38 mm, mentre l’albero a camme è il 115. Le bielle con stelo ad H della Pankl hanno l’interasse di 130 mm, la pompa dell’olio è maggiorata per migliorare la lubrificazione e il raffreddamento dei cilindri. La frizione è a secco con dischi sinterizzati a 19 dischi anziché 17, mentre il coperchio frizione e quello delle valvole sono in magnesio.
Finalmente arriva il grande trionfo e, nel 1990, Edi Orioli vince la Parigi-Dakar in sella alla Cagiva Elefant motorizzata Ducati. Per l’occasione, il carter è fuso in terra con fissaggio teste a interasse largo. I cilindri sono maggiorati e, con corsa di 68 mm, la cilindrata è di 904 cc. Il coperchio della frizione, quello dell’alternatore, delle valvole e i cappellotti delle camme sono in magnesio. Il coperchio frizione viene forato durante la gara per dissipare meglio il calore. Quella del 1990 è la prima affermazione di una Casa motociclistica italiana nel massacrante rally africano. Un successo completato dal terzo posto di Alessandro De Petri, detto Ciro, anch’egli in sella alla Cagiva.
Nel 1993, la Cagiva non prende parte alla Parigi Dakar, ma allestisce comunque un motore nelle vesti di prototipo. Con il cambio di regolamento, che impone la derivazione da prodotti di serie con deroghe per alcuni componenti, si utilizza il carter grande, che si distingue per la quadrettatura sui fianchi della coppa dell’olio. Il fissaggio delle teste è a interasse largo, la corsa è di 64 mm e la cilindrata sempre di 904 cc. Le teste hanno il cielo trisferico di lavorazione meccanica. Le valvole sono da 43 e 38 mm, mentre le camme sono le 122. Le bielle con stelo ad H della Pankl hanno un interasse di 130 mm. I coperchi del motore sono di produzione, mentre i coperchi delle valvole e i cappellotti delle camme sono in magnesio. L’avviamento è elettrico e non compare l’avviamento a pedale.
Nel 1994, dopo una parentesi non troppo fortunata con le auto, Edi Orioli ritenta l’avventura della Dakar in sella alla Cagiva Elefant in configurazione Marathon (derivata dalla serie) e centra il secondo successo per la Casa italiana. Il carter è quello grande di serie, che si distingue per la quadrettatura sui fianchi della coppa olio, mentre il fissaggio delle teste è a interasse largo. La cilindrata è di 904 cc con teste con cielo trisferico di lavorazione meccanica. Le valvole sono da 43 e 38 mm, mentre le camme sono le 122. Le bielle con fusto ad H Pankl hanno l’interasse di 130 mm.
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