Ducati è sinonimo di tecnologia in tutto il mondo, anche se negli ultimi anni lo scenario è cambiato.
Prima erano il motore bicilindrico a L con distribuzione desmodromica e il telaio in traliccio di tubi a fare la differenza, mentre adesso è l’utilizzo dell’elettronica e dei sistemi ad essa collegati che consentono nuove interessanti applicazioni.
Da questo punto di vista, la Casa di Borgo Panigale sta giocando un ruolo da protagonista, sia in ambito agonistico che per quanto riguarda i prodotti di serie. Una leadership tecnologica frutto di investimenti, impegno e risorse importanti, resa ancora più complicata dalla convivenza con una tradizione altrettanto forte, consolidatasi nel corso degli anni.
Perché la tradizione va talvolta a scontrarsi con l’innovazione, generando spesso una sorta di immobilismo tecnico del quale un marchio può contemporaneamente trarne giovamento o rimanerne vittima, con esempi che, in tal senso, si sprecano.
Ne abbiamo parlato con l’Ingegner Andrea Forni, Direttore Tecnico Veicolo dell’azienda di Borgo Panigale.
Bolognese doc, classe 1957, Forni lavora in Ducati dal 1988 e negli anni ha ricoperto a lungo la carica di responsabile del Reparto Esperienze: un ruolo che sembrava essere ritagliato su misura, in virtù della sua capacità di coniugare una grandissima competenza tecnica a un’altrettanto spiccata bravura nell’andare in moto.
Poi, nel 2005, è arrivata la nomina a Direttore Tecnico Veicolo, che ha coinciso con l’inizio di una nuova fase per la Casa bolognese, nella quale il listino ha subìto profondi mutamenti, grazie all’introduzione di modelli concettualmente evoluti come la 1098, la Hypermotard, il nuovo Monster, la Streetfighter, la nuova Multistrada e, infine, il Diavel.
Prodotti profondamente affinati dal punto di vista tecnico, pur essendo molto diversi tra loro per tipologia e utilizzo, come se il DNA della Ducati, figlio della sportività, fosse stato suddiviso in segmenti sempre più specifici, dando vita a moto “alternative”.
Un percorso che fino a oggi ha sempre dato ragione agli uomini che lavorano all’interno della fabbrica di Borgo Panigale, che nel frattempo si sono aggiudicati pure un titolo mondiale in MotoGP, nel 2007.
Mai come in questi anni, dunque, il binomio corse-prodotto di serie ha conosciuto in Ducati un successo così diffuso, anche se viene da chiedersi in quale percentuale l’innovazione di certi modelli sia effettivamente legata alle competizioni quanto piuttosto a una specifica parte dell’area tecnica.
“Le cose procedono di pari passo. – spiega Forni – Ducati Corse e Ducati Motor hanno una propria direzione tecnica. Le due realtà hanno team di persone diverse che, ovviamente, si interfacciano e si scambiano informazioni e opinioni, ma che operano in maniera autonoma su progetti specifici. E’ ovvio che l’esperienza delle competizioni viene travasata sulla produzione di serie tutte le volte che il tema specifico lo consente, sarebbe illogico il contrario. L’esempio più eclatante che si può produrre è costituito dallo sviluppo degli algoritmi che regolano il controllo della trazione. E’ noto a tutti che questo, almeno nel mondo del motociclismo, è nato sulle moto da corsa e Ducati è stata una delle prime case costruttrici a utilizzarlo. Il sistema è stato sviluppato e perfezionato nel corso di numerose stagioni di gare, con il contributo dei piloti ufficiali, quindi grandi campioni, e quando ha raggiunto una maturità, un’efficacia e, soprattutto, un livello di affidabilità e sicurezza tali da renderlo applicabile alle moto di produzione, il “pacchetto” di algoritmi era praticamente già pronto per l’uso. A quel punto, il lavoro di trasferimento si è limitato, pur trattandosi di un’attività laboriosa e complessa, alla ricalibrazione del sistema per adattarlo alle diverse misure dei pneumatici di serie, al loro diverso livello di aderenza e, soprattutto, alla ben diversa quantità di spin utilizzabile da parte dei normali utenti. E’ stato così, ad esempio, che è emersa chiara la necessità di proporre differenti livelli di intervento del sistema (i famosi 8 livelli, ndr), dal momento che una sola taratura non sarebbe mai potuta andare bene per tutti e per tutte le situazioni che si possono incontrare. Questo ha comportato l’aggiunta di ulteriori algoritmi al programma. Inoltre, è nata l’esigenza di rendere il sistema compatibile con l’uso di sistemi di scarico catalizzati, pertanto il software originale, mutuato da Ducati Corse, è stato integrato con le “routine” necessarie per soddisfare questa esigenza. Un altro esempio diametralmente opposto, invece, è costituito dal pacchetto Hands Free: questo, ovviamente, è stato sviluppato dal team della Direzione Tecnica Elettronica di Ducati Motor. Un terzo esempio ancora, intermedio tra i due citati finora, può essere rappresentato dalla progettazione di un cruscotto che deve equipaggiare sia la moto stradale che la corrispondente versione da competizione, come nel caso della Superbike. In queste circostanze, i due team lavorano fianco a fianco fin dai primi istanti del progetto, ovvero quelli in cui vengono definite le specifiche, perché è indispensabile sapere fin da subito quante e quali saranno per soddisfare entrambe le esigenze: corse e strada. Un esempio piuttosto illuminante in tal senso sarà inoltre visibile in un futuro non lontano.“
Forni affronta di buon grado un altro argomento che, secondo noi, risulta di particolare interesse: la trasmissione automatica. Un sistema che in ambito motociclistico, a differenza del settore auto, non si è ancora affermato con convinzione. Tra l’altro, forse non tutti sanno che, a livello sperimentale, Ducati ha già effettuato delle applicazioni simili in passato, pertanto verrebbe spontaneo ipotizzarne la comparsa, se non su tutta la gamma, almeno su quei modelli che, pur nella loro sportività, hanno un occhio di riguardo nei confronti del comfort di guida, come la Multistrada 1200 e il Diavel.
“Il tema è piuttosto complesso. – inizia la sua analisi il Direttore Tecnico Veicolo Ducati – Talmente complesso che occorre chiarire innanzitutto se ci si riferisce alle trasmissioni automatiche propriamente dette o ai cambi robotizzati. Nel primo caso, ovvero quello dei cambi automatici in senso stretto, di gran moda negli Stati Uniti, caratterizzati da ruotismi epicicloidali, frizioni elettromagnetiche e convertitori di coppia, va detto che in realtà, anche in campo automobilistico, questo tipo di soluzione si è affermato sempre e soltanto in America, mentre l’Europa l’ha sempre, per così dire, snobbato. Per quanto riguarda la loro applicazione sulle moto, che io sappia, non c’è mai stata. Qualcosa di vagamente simile, se non sbaglio, è stata fatta dalla Moto Guzzi negli anni Settanta, grazie a un convertitore di coppia abbinato a un cambio manuale a due marce, e dalla Honda su base 750 Four, con uno schema che non si discostava più di tanto. Il livello di probabilità che un “pacchetto” del genere, anche se riproposto in chiave moderna, possa risultare appetibile per un numero interessante di motociclisti, secondo me è proporzionale a quella che qualcuno rimpianga i modelli citati! Se parliamo invece dei cambi CVT, il discorso è ben diverso: nel settore degli scooter dominano da anni in maniera incontrastata e continueranno a farlo dal momento che sembrano fatti l’uno per l’altro. Il cambio CVT è semplicemente perfetto per le esigenze di praticità d’uso, facilità di guida e spunto da fermo: nulla di ciò che, ad oggi, è ipotizzabile ha le caratteristiche per soppiantarlo. Viceversa, nonostante la presenza sul mercato di proposte interessanti e ben realizzate, non ha riscosso altrettanto successo nel settore auto e lo stesso vale per le moto vere e proprie. Per finire ci sono i cambi robotizzati, nelle loro varie declinazioni, accoppiati o meno con la doppia frizione. Il successo di questo sistema nel campo delle quattro ruote, meglio se di alta gamma, è sotto gli occhi di tutti e segue il suo dominio ultraventennale nelle competizioni, partito con la vittoria di Nigel Mansell sulla Ferrari F1 il giorno del suo debutto e proseguito inarrestabile fino ai giorni nostri. Di certo, dunque, ha tutto quello che serve per affermarsi in ambito automobilistico, come la praticità di poter cambiare senza levare le mani dal volante nell’uso sportivo, anche stradale, e la comodità di poter essere usato in modo completamente automatico se si desidera selezionare tale funzione. Per le moto il discorso cambia. Sulle sportive di oggi non esiste niente di meglio, o quasi, di un buon quick shifter. Lo dico per esperienza diretta; in Ducati abbiamo provato il primo nel lontano 1998. Si trattava di un robotizzato al 99%, al quale mancava solo la possibilità di partire in automatico da fermo. Funzionava in modo impeccabile, ma purtroppo, a parte l’indubbio piacere di usarlo, non dava alcun vantaggio concreto rispetto a un quick shifter, pur essendo viceversa più complesso e costoso.“
Giochi di parole a parte, il discorso non fa una piega, ma perché, allora, i quick shifter ci hanno messo così tanto per entrare in produzione, visto che la loro prima apparizione risale a pochissimi anni fa e oggi sono solo Ducati, Bmw e Aprilia a proporli sui rispettivi modelli di serie?
E’ qui che l’Ingegner Forni abbandona i panni del tecnico e indossa quelli dell’appassionato praticante: “Perché il motociclista è un personaggio attento alle innovazioni tecnologiche e amante del progresso, ma ha un vizio: vuole guidare lui! Si rassegna ad accettare l’aiuto di un “intruso”, elettronico o meccanico che sia, solo quando a raccomandarglielo caldamente sono il cronometro, al quale non sa mai dire di no, oppure la classifica di un campionato, MotoGP o Superbike che sia!“
Però, per partire da fermo senza utilizzare manualmente la frizione ci vuole un cambio robotizzato vero e proprio: “Già, almeno per ora!“
Morale della favola: il Forni-pensiero è che, sulle moto, il cambio robotizzato avrà semmai una diffusione lunga, lenta e laboriosa. “Il quick shifter, invece, si espanderà tra le sportive con grande rapidità e sconfinerà addirittura in altri segmenti, magari con un po’ più di calma.“
Approfondiamo poi gli aspetti generali della progettazione chiedendogli di illustrarci quali sono i compiti del suo reparto, quante persone vi lavorano, qual è il loro profilo professionale e, soprattutto, come nasce una nuova Ducati e quanto tempo ci impiega prima di andare definitivamente in produzione.
Una domanda solo apparentemente semplice che ha richiesto una risposta lunga e articolata: “Il percorso che porta allo sviluppo di una nuova moto parte generalmente da una proposta di stile fatta tramite un bozzetto. Una volta approvato, si passa subito alla realizzazione di un oggetto tridimensionale: la cosiddetta maquette di stile. In questo modo, è possibile apprezzare meglio certe cose rispetto a ciò che permette l’osservazione di un disegno su carta. Il tutto viene poi ulteriormente affinato fino a quando non si stabilisce che il design generale del mezzo è quello definitivo. A questo punto scatta la fase preliminare della progettazione, che provvede a stabilire il layout della moto e quindi a collocare prima i vari macrocomponenti, come l’airbox, il sistema di scarico, il radiatore e, successivamente, i microcomponenti, come il regolatore di tensione, il teleruttore del motorino di avviamento ecc. Il passo successivo consiste nella realizzazione di un’altra maquette non funzionante che ingloba una buona parte di pezzi frutto della progettazione (pur se realizzati con attrezzature non definitive, ndr) e non più del lavoro di un modellista. In questa fase, dunque, si inizia a definire sia al computer, attraverso l’uso del Cad, che a livello tridimensionale, un oggetto più simile alla moto vera, in quanto munito di tutti gli elementi che deve avere. Da qui in poi si procede con il disegno e con il calcolo dei vari componenti parallelamente alla realizzazione dei cosiddetti muletti che, pur non ricalcando necessariamente l’aspetto della moto definitiva, servono per avviare la sperimentazione in merito alla distribuzione dei pesi, alle geometrie e all’ergonomia. Una delle caratteristiche dei muletti, infatti, è quella di essere “regolabili” sotto molti punti di vista, dalla posizione delle pedane e del manubrio all’inclinazione del cannotto di sterzo, in modo da poter esplorare con essi tutti i parametri che agiscono sul comportamento dinamico del mezzo. Allo stesso tempo, in questa fase si inizia a esplorare la funzionalità dei sottogruppi, come ad esempio l’impianto di raffreddamento, dopo di che si passa alla progettazione dettagliata dei singoli pezzi del veicolo, con i quali vengono allestiti i prototipi. Questi ultimi hanno la stessa forma del modello definitivo, anche se i pezzi che li costituiscono rappresentano ancora esemplari unici, realizzati con attrezzature non definitive, come nel caso di un supporto pedana fuso in terra anziché in conchiglia o di un telaio saldato a mano anziché da un robot. Con il prototipo si replicano le prove fatte con il muletto per avere eventuali conferme o smentite, quindi si iniziano le cosiddette campagne di affidabilità, che consistono in una serie di test, della durata di circa una settimana, sul circuito di Nardò in Puglia. Oltre al famoso anello di velocità, lì è stato realizzato un bellissimo tracciato, lungo circa 6 Km, all’interno del quale è possibile eseguire le varie prove di handling che ci necessitano, permettendoci di svolgere tutto il lavoro con un’unica trasferta. Effettuiamo anche alcuni test funzionali, come la scelta dei pneumatici, sia in termini di misure che di mescole, la rapportatura finale, la taratura delle sospensioni e la messa a punto dell’impianto frenante, oltre ai rilevamenti fonometrici, delle vibrazioni e quelli relativi all’inquinamento, che devono naturalmente essere conformi alle varie normative, senza contare che precedentemente ogni pezzo è stato sottoposto a prove di fatica e rigidezza per verificarne in modo sperimentale le caratteristiche che fino a quel momento sono state solo calcolate al computer, anche se ormai, nella maggior parte dei casi, la verifica dà sempre esito positivo e i vari elementi risultano conformi. Come se non bastasse, tutto ciò viene replicato sulla cosiddetta avanserie, che differisce dal prototipo per il fatto di essere assemblata con pezzi realizzati tramite attrezzature definitive, ma di essere a sua volta prodotta in un numero ridotto di esemplari, di solito una quindicina, su una linea di montaggio “pilota”, costituita da poche postazioni dove lavorano persone selezionate che definiscono le procedure di assemblaggio e le coppie di serraggio. A tale scopo, utilizzeranno apposite chiavi dinamometriche che serviranno a tarare gli avvitatori utilizzati nella produzione finale. Questa fase è di notevole importanza, perché due moto costituite dagli stessi identici pezzi, ma assemblate in modo differente, possono risultare completamente diverse. Il passaggio successivo è la preserie, che viene sì allestita sulla linea di montaggio definitiva, quindi con le stesse persone e con gli stessi strumenti, ma con una cadenza nettamente più bassa, proprio per avere la possibilità di verificare che tutto funzioni come si deve, oltre che per addestrare chi deve poi effettuare la vera e propria produzione di serie, che rappresenta il passo successivo, non prima però che anche la preserie sia stata sottoposta alla campagna di affidabilità. Come se non bastasse, poi, una volta partita la produzione di serie, prima che gli esemplari vengano consegnati alle concessionarie, ne vengono prelevati alcuni a caso per essere a loro volta sottoposti alla campagna di affidabilità, mentre tutti gli altri rimangono “in quarantena” all’interno dell’azienda. Se anche gli ultimi test danno esito positivo, le moto possono finalmente raggiungere le concessionarie e, quindi, i clienti! Naturalmente, se durante tutto questo percorso ci si imbatte in qualche problema, cosa che capita con ragionevole probabilità, anche se per fortuna non si tratta mai di cose particolarmente importanti quanto piuttosto di semplici regolazioni, entrano in azione delle squadre di soccorso che intervengono sui singoli esemplari risolvendo il problema. Il tempo medio che di solito serve per passare dal bozzetto di stile alla produzione dipende da vari fattori. In primis, da quanti progetti sta portando avanti l’azienda in quel momento. Il reparto di ricerca e sviluppo conta su quasi 170 persone che vengono divise in gruppi e ogni gruppo porta avanti un progetto diverso, altrimenti sarebbe impossibile uscire con un nuovo modello ogni anno. Per quanto riguarda l’ufficio tecnico veicolo, che segue ovviamente la stessa logica, al suo interno ci sono 35 progettisti. Pertanto, se per il Diavel ci sono voluti 36 mesi, per la 1098, ad esempio, sono bastati circa due anni, in quanto all’epoca l’azienda era fortemente focalizzata sulla sostituzione della 999, mentre per la Desmosedici RR, trattandosi di un progetto completamente inedito, tutto l’iter è durato quasi quattro anni.“
Un processo impegnativo e rigoroso, dunque, frutto di un affinamento maturato negli anni che prosegue tuttora e serve a realizzare prodotti sempre più evoluti e affidabili.
Cose un tempo impensabili sono oggi all’ordine del giorno per un’azienda come Ducati che, del resto, è portabandiera del “made in Italy” nel mondo e punta su moto di alta gamma, dove il livello qualitativo è fondamentale, al pari dello stesso design.
Dopo aver visitato il Centro Stile, ci siamo resi conto di quanto sia delicata l’interazione tra l’area tecnica e quella che definisce la parte estetica delle moto, così abbiamo approfittato della presenza dell’Ingegner Forni per capire come viene vissuto questo rapporto dall’altra parte della “barricata”.
“In realtà, secondo me si tratta di un argomento da analizzare quasi più dal punto di vista psicologico che tecnico! – spiega Forni, sorridendo – E’ inutile negare che, spesso e volentieri, le esigenze dell’ingegneria e quelle dello stile sono diverse, per cui è evidente che ci deve essere un confronto. L’importante è che questo rimanga su un piano costruttivo. Può capitare, infatti, che chi esprime la propria posizione lo faccia in modo razionale, come nel caso in cui si debba congiungere meccanicamente due punti ottenendo la massima rigidezza e leggerezza possibile: è chiaro che, per un tecnico, la linea retta risulterà sempre la soluzione migliore, ma non è detto che sia anche la più bella! Perciò si cerca una mediazione nell’ambito del buon senso. La nostra fortuna è che chi lavora qui è spesso un appassionato e sa bene che se una moto risulta funzionalmente impeccabile ma brutta, lui per primo non la comprerebbe.“
Tra non molto, si parla del 2012, Ducati sostituirà la 1198 con una supersportiva di nuova generazione che, ovviamente, avrà il compito di spostare verso l’alto l’asticella delle performance. Tuttavia, viene il dubbio di come sarà possibile mantenere entro livelli accessibili per l’utente medio la guidabilità di una moto ancora più potente.
“Punteremo sull’elettronica. – è la pronta risposta dell’Ingegnere – La strada è senza dubbio quella che abbiamo già intrapreso con la Multistrada 1200 e con il Diavel e consiste nella possibilità di offrire diversi livelli prestazionali selezionabili dall’utente. Mi verrebbe da dire che, oggigiorno, con l’elettronica è possibile trasformare una “belva” in un “agnello”, motociclisticamente parlando, mentre per fare il contrario ci vuole la meccanica!“
Rimanendo in tema, ci viene in mente il caso della Desmosedici RR, che pur ottenendo un successo di vendite clamoroso non ha avuto ulteriori sviluppi tecnici, come ad esempio una turistico/sportiva equipaggiata con lo stesso V4 opportunamente “addomesticato” grazie all’elettronica. Perché, quindi, questa piattaforma così interessante non è stata sfruttata ulteriormente?
“Per come è stata industrializzata, la Desmosedici RR si prestava solo alla produzione di un numero limitato di esemplari, peraltro molto costosi. – dice Forni – Per passare a una produzione più ampia e con tecnologie che consentano di abbassare il prezzo fino al livello richiesto dal mercato, bisognava industrializzare il motore in maniera completamente diversa: in pratica, è stato come costruire 1500 prototipi. E’ evidente che quel motore avrebbe potuto avere molte altre applicazioni interessanti, però l’investimento iniziale avrebbe dovuto essere notevolmente superiore, mentre le priorità dell’azienda erano altre, come appunto la realizzazione della nuova Superbike bicilindrica, che rappresenta il nostro DNA, sia nella produzione che nelle competizioni. La nostra scelta, dunque, è stata la più logica, fermo restando che posso essere d’accordo sul fatto che sviluppare una famiglia di moto con il motore della Desmosedici RR, avendo le risorse per farlo senza sottrarle ad altri progetti, sarebbe stato molto interessante. D’altro canto, però, mi preme sottolineare come Ducati sia stata la sola casa costruttrice al mondo a proporre la replica stradale della propria MotoGP e perciò trovo anche giusto che chi ha speso 60.000 Euro per acquistarla goda dell’esclusiva di possedere un oggetto unico.“
L’Abs è un altro dei temi che in ambito motociclistico sta acquisendo sempre maggiore importanza negli ultimi tempi. Ducati lo ha già adottato su gran parte della propria gamma, ma non sulle Superbike replica (1198 e 848). E’ solo una questione di tempo o si tratta di una scelta precisa?
“Entrambe le cose. Al momento, gli impianti Abs disponibili sul mercato sono progettati e risultano efficaci ai fini della sicurezza. Per spuntare il “best lap” in pista, invece, non è stato ancora raggiunto il livello che ci interessa, ovvero tale da garantire le massime performance durante la frenata a moto inclinata, che poi è la fase più importante per il tempo sul giro, quella dove i piloti più bravi fanno la differenza. La strada per arrivare a questo risultato, comunque, è già stata intrapresa e stiamo lavorando insieme agli specialisti del settore per arrivarci in tempi rapidi.“
Rispetto al settore auto, dove i gradi di libertà sono inferiori, l’impressione è che sulle moto ci sia ancora un discreto livello di empirismo per quanto riguarda la dinamica del veicolo. Come si riesce, dunque, a realizzare un progetto che, una volta sviluppato, dia ragionevoli garanzie di andare subito bene?
“Questa è un’altra di quelle domande per le quali ci vorrebbe molto tempo per rispondere (ride)! Innanzitutto, vorrei puntualizzare che, secondo me, nel settore auto la dinamica del veicolo non è poi tanto più semplice di quella del settore moto, mentre sono perfettamente d’accordo nell’affermare che a livello tecnologico le quattro ruote siano più “avanti” rispetto alle due. A livello di software di simulazione, ad esempio, sono arrivati storicamente prima. E’ vero anche che le moto, per loro natura, sono più complicate da analizzare nel loro comportamento dinamico, senza considerare il fatto che il pilota si muove rispetto ad esse. E’ quindi più facile che, in una corsa automobilistica, il risultato finale sia influenzato dalle caratteristiche del mezzo piuttosto che dalle capacità del conducente, mentre in quelle motociclistiche è quasi sempre il pilota a fare la differenza e quindi i suoi gusti sono determinanti ai fini della messa a punto. Se parliamo del prodotto di serie, invece, la faccenda è un po’ diversa: il lavoro non procede con l’unico obiettivo del tempo sul giro, ma si cerca la funzionalità e la soddisfazione di guida, che gli anglofoni chiamano riding pleasure. Anche quest’ultimo, in ogni caso, è soggettivo, perciò dipende da chi sviluppa la moto e, soprattutto, dalla sua esperienza. Esistono dei software di simulazione anche nel nostro campo, ma una volta applicati per definire un layout di massima serve comunque un importante lavoro di affinamento attraverso le prove sperimentali. Per fortuna oggi, durante lo sviluppo, abbiamo il supporto dell’acquisizione dati, che ha facilitato le cose, mentre una volta ci si affidava soltanto alle sensazioni personali.“
Nella MotoGP, come abbiamo detto, vengono studiate soluzioni innovative e, per quanto riguarda la ciclistica, una di queste coinvolge proprio la Desmosedici e il suo telaio in fibra di carbonio con il motore in funzione portante. Al di là di questo (che pare verrà ripreso sulla futura supersportiva di cui parlavamo prima), fino a ora nessuno, a parte la Honda/Elf, la Bimota/Vyrus e la Yamaha GTS, ha però avuto il coraggio di proporre un sistema alternativo alla forcella telescopica, né sulle moto da corsa né su quelle di produzione, e anche Ducati non sembra interessata in tal senso, indipendentemente dagli investimenti e dal tempo necessario per sviluppare qualcosa di nuovo.
“Laddove si ricercano le migliori prestazioni, – spiega l’Ingegner Forni – la forcella telescopica è ancora imbattibile, per tutta una serie di motivi. Il primo è che chi ha proposto sistemi alternativi, come il forcellone anteriore, lo ha fatto sostenendo che in quel modo l’assetto della moto, e quindi l’avancorsa, rimane costante. Questo, entro certi limiti, è vero, ma opinabile è il fatto che costituisca un vantaggio! In condizioni statiche, infatti, la massa del veicolo è quasi equamente distribuita sulle due ruote, mentre nelle frenate al limite, il trasferimento di carico fa sì che quasi tutta la massa gravi su quella anteriore. Il livello di stabilità di questa dipende, oltre che dal carico verticale che insiste su di essa e dal coefficiente di attrito del pneumatico, dal valore dell’avancorsa. In pratica, dunque, un sistema che mantiene l’avancorsa costante come quelli citati, esalta la stabilità dell’avantreno nella fase di frenata, che tuttavia coincide con quella in cui si ha anche la necessità di avere la massima rapidità nell’inserimento in curva. Con la forcella telescopica la compensazione tra l’aumento di carico sulla ruota anteriore e la riduzione dell’avancorsa è naturale! Quindi, almeno nell’applicazione racing, questo sistema è ancora il migliore disponibile, mentre per un’eventuale moto stradale con caratteristiche non estreme potrebbe anche dimostrarsi vantaggioso il forcellone anteriore, ma per altri aspetti, non certo per l’handling. C’è inoltre un altro aspetto da considerare e riguarda il feeling di guida. La possibilità di percepire l’aderenza offerta da entrambi i pneumatici è infatti fondamentale. Per la ruota posteriore, il controllo della trazione ha in gran parte risolto il problema, mentre per quanto riguarda quella anteriore, proprio perché ancora non esiste un Abs sufficientemente evoluto, tutto è affidato alla sensibilità del pilota. E’ chiaro che la condizione ideale con cui amplificare al massimo questa percezione sarebbe quella in cui il pilota impugna il perno della ruota anteriore, dal momento che il “segnale” che parte dal punto di contatto del pneumatico con l’asfalto e arriva alle mani del pilota si propagherebbe nel modo più diretto possibile e senza perturbazioni. Da questo punto di vista, la forcella telescopica rappresenta ancora una volta la soluzione migliore, perché laddove compaiono delle articolazioni per il sistema di sterzata sussistono inevitabilmente anche dei giochi, destinati tra l’altro ad aumentare con il tempo, che disturbano il “segnale” di cui parlavamo prima. E’ vero che anche lo sterzo di un’auto è affetto da gioco, ma va detto che esso influisce in percentuale molto inferiore rispetto a quanto avviene su una moto, dal momento che anche nelle auto con lo sterzo più diretto possibile, come le Formula 1, il pilota utilizza un range pari a circa 360° di rotazione del volante, mentre il pilota di moto ruota lo sterzo di pochissimi gradi durante la guida in pista.“
Chiudiamo la nostra lunga intervista parlando di trazione elettrica. Un argomento di grande attualità, in merito al quale è senza dubbio interessante conoscere la posizione e le prospettive all’interno dell’azienda di Borgo Panigale. “Naturalmente, da parte nostra c’è grande attenzione nei confronti di ciò che sta succedendo nel settore automotive a proposito della trazione elettrica per capire in anticipo il trend. In particolare, sono ormai tanti anni che le aziende automobilistiche cercano di proporre veicoli elettrici di vario tipo. Per il momento, Ducati si limita a osservare quello che sta succedendo, tenendosi aggiornata a livello conoscitivo sulle tecnologie, sulle possibilità e sulle potenzialità di questo settore. Non c’è di fatto in essere lo studio o la progettazione di una moto elettrica. Oltre che dal risultato di queste osservazioni, dipende da come si evolverà il mercato. Inoltre, va detto che la questione dell’inquinamento andrebbe chiarita, nel senso che non è corretto dire che il motore elettrico non inquina: esso, in realtà, sposta il problema più “a monte”. Quindi bisognerebbe parlare dei grammi di CO2 che servono per produrre l’energia necessaria alla ricarica delle batterie e, a seconda del modo in cui viene prodotta, si scoprono risultati paradossali, nel senso che con le centrali a carbone, come ad esempio avviene in Cina, le emissioni di CO2 equivalenti sono superiori a quelle di un motore termico. L’unica fonte di energia in grado di supportare una motorizzazione elettrica di massa è quella nucleare, pertanto il problema diventa quasi di natura politica, piuttosto che tecnica. Rimanendo in questo ambito, un’altra cosa da prendere in considerazione non è tanto la potenza dei motori, che è del tutto paragonabile a quella delle unità a scoppio, rispetto alle quali sono addirittura più piccoli e leggeri, quanto piuttosto la durata delle batterie. Oggi, le auto elettriche hanno circa 100 Km di autonomia, dopo di che devono essere sottoposte a ricarica per almeno 8 ore. Diverso è il discorso per le motorizzazioni ibride, che in tempi brevi potrebbero trovare un’applicazione concreta anche in campo motociclistico, mentre per la trazione esclusivamente elettrica prevedo tempi più lunghi.“
Razionale come si conviene alla sua formazione, ma all’occorrenza anche molto ironico, sempre disponibile e, soprattutto, mai banale: Forni è tuttora la prima persona che, spesso, sale in sella al prototipo di un nuovo modello Ducati durante la fase di sperimentazione, a testimonianza di quanto grande sia la passione che nutre per il suo lavoro.
Foto Ulisse Donnini