Far convivere la tecnica e il design in un unico progetto rappresenta l’eterno dilemma con il quale hanno a che fare le aziende di tutto il mondo. Se poi il settore di cui stiamo parlando è quello motociclistico, le cose si complicano ulteriormente.
Ci sono stati anni, infatti, in cui, a parte rare e “illuminate” eccezioni, le moto erano o belle o funzionali; poi, però, il mercato si è evoluto, diventando sempre più esigente da questo punto di vista, costringendo tecnici e designer a una sorta di convivenza forzata.
Anche in Ducati è successa una cosa del genere, quando a capo del Centro Stile è arrivato Andrea Ferraresi, un ingegnere con il gusto delle cose belle, ma pur sempre un ingegnere; prima, invece, il rapporto tra chi si occupava del lato estetico e il reparto di ricerca e sviluppo era a dir poco conflittuale: in pratica, ci si limitava a fare dei disegni, realizzare una maquette e consegnare il tutto nelle mani dei tecnici, magari accompagnando il gesto con un bella pacca sulla spalla. Della serie: io ho fatto la mia parte, adesso tocca a voi!
Per fortuna, come dicevamo, le cose sono cambiate, al punto che per dare vita a un nuovo progetto, gli ingegneri e i designer fanno, come si suol dire, “il solco” tra il Centro Stile e l’Area Tecnica della Casa di Borgo Panigale.
Nella fattispecie, parliamo di Antonio Zandi e Julien Clement, rispettivamente project engineering e designer dell’ultimo nato all’interno dell’azienda: lo Scrambler, una moto che riveste un’importanza fondamentale per il marchio bolognese, sia dal punto di vista del mercato che di tradizione, visto che si tratta di un modello storico. Non era facile, dunque, centrare l’obiettivo al primo colpo, anzi, se vogliamo dirla tutta, un prodotto di questo tipo nascondeva più rischi che vantaggi.
Ecco perché abbiamo voluto incontrare i protagonisti di questo lavoro che, seppur complicato, è stato svolto con una naturalezza quasi inaspettata: il nuovo Scrambler, infatti, ci ha convinto fin dal primo sguardo, grazie al suo aspetto riconoscibile ma equilibrato e al suo equipaggiamento semplice ma tutt’altro che “povero”, oltre che alle sue prestazioni accessibili e al suo collocamento come fascia di prezzo.
Ne è venuta fuori una piacevole chiacchierata, dove i diretti interessati hanno parlato a ruota libera per più di un’ora, senza rispettare una specifica scaletta di domande, ma semplicemente alternandosi sui temi salienti che hanno interessato la genesi di questo modello, il primo dei quali consiste proprio nell’interazione tra la parte tecnica e quella relativa al design: “In realtà, la moto rappresenta il risultato di una lunghissima serie di confronti tra l’Area Tecnica e il Centro Stile. – prende la parola Clement – Non è nata così, ma ci siamo arrivati dopo tanti aggiustamenti di vario tipo, tenendo sempre a mente l’idea di fare un prodotto moderno, anche se ispirato al modello degli anni Settanta. Pertanto, forse all’inizio eravamo partiti con una linea fin troppo evoluta, che si discostava troppo dal concetto originale, ma poi abbiamo corretto il tiro, bozzetto dopo bozzetto, fino ad arrivare alla soluzione attuale. In un certo senso, dunque, è stato come effettuare un percorso inverso rispetto a quello che si fa di solito all’interno della Ducati, dove i nuovi modelli devono essere sempre un passo avanti a quelli precedenti.”
“Si tratta in effetti di un progetto molto particolare, che si discosta da tutto il resto della nostra produzione. – è la replica di Antonio Zandi – Con simili premesse, la possibilità di farsi venire la cosiddetta ansia da prestazione era tutt’altro che remota, ma poi ha prevalso l’entusiasmo. Sia io che Julien siamo alle nostre prime esperienze all’interno di Ducati, quindi eravamo entrambi carichi di energie particolarmente fresche, e devo dire che fin dall’inizio ci siamo trovati molto bene a lavorare insieme. E’ chiaro che ci sono state delle piccole discussioni su alcune scelte, ma ogni singolo componente che è stato montato sulla moto è stato oggetto di confronto, anche perché, su un modello del genere, gran parte del materiale tecnico è a vista, perciò, in un certo senso, Julien ha dovuto calarsi nei panni dell’ingegnere e io ho dovuto vestire quelli del designer!”
L’unica critica che è stata mossa al nuovo Scrambler da parte di chi ha avuto modo di osservarlo solo in foto consiste nel fatto che la moto possa risultare un po’ troppo piccola.
Ecco cosa pensa Julien a questo proposito: “Negli ultimi anni, anche nel settore auto, abbiamo assisitito a un progressivo aumento dimensionale dei veicoli. Invece, questo doveva essere un mezzo facile da utilizzare, l’entry level della gamma Ducati, perciò abbiamo cercato di compattare il più possibile il veicolo, come se si trattasse di una special che viene spogliata di tutte le sovrastrutture. Inoltre, avendo come base meccanica un motore molto stretto, non potevamo realizzare un serbatoio troppo ingombrante, altrimenti ne sarebbe scaturito un effetto poco uniforme dal punto di vista estetico.”
A proposito di serbatoio, Clement ha dovuto fare i conti anche con alcuni elementi imprescindibili, come le due guance laterali cromate, che però erano abbastanza ostici da reinterpretare in chiave moderna: “Era un dettaglio con il quale ci siamo confrontati fin dall’inizio del progetto. Il momento chiave è stato quando abbiamo deciso di abbinare questo particolare al concetto della personalizzazione. Così ci è venuto in mente di realizzare un serbatoio modulare, con le porzioni laterali flottanti, che possono essere sostituite facilmente in modo da variarne il colore, un po’ come era già successo con il Monster 696 e l’iniziativa Monster Art. In questo modo, siamo riusciti a rendere più moderna una sovrastruttura che, di per sé, è caratterizzata da forme indiscutibilmente classiche.”
Un altro dettaglio che ha riscosso grande successo fin dal primo momento consiste nei cerchi in lega leggera dall’inedito disegno che ricorda quelli a raggi. Anche in questo caso, dunque, un perfetto esempio di come un particolare attuale riesce a garantire il rispetto della tradizione. “Abbiamo fatto dei tentativi con vari tipi di cerchi, compresi quelli a raggi, naturalmente, ma poi ci siamo resi conto che quelli in lega rendevano la moto più sportiva, oltre a garantire un vantaggio in termini di peso. Non bisogna dimenticare, infatti, che questo tipo di ruote andava di moda già negli anni Settanta e, anzi, caratterizzava proprio il mondo delle flat track, cui lo Scrambler si ispira fortemente.”
In particolar modo, il cerchio anteriore è valorizzato da un altro elemento insolito e coraggioso al tempo stesso, almeno sulle moto di grossa cilindrata, vale a dire il monodisco per l’impianto frenante, e qui riprende la parola Zandi: “La moto doveva essere semplice e leggera, per questo ci siamo orientati su questo tipo di soluzione, anche se la frenata doveva comunque garantire certe prestazioni. Il nostro riferimento, infatti, era il Monster 796, così ci siamo messi a sperimentare varie combinazioni per quanto riguarda dischi e pinze fino a quando non siamo arrivati a quella che ci soddisfaceva di più. All’inizio eravamo partiti dal classico disco da 320 mm, ma poi abbiamo scoperto che quello da 330 mm montato sulla Panigale, in abbinamento a una pinza radiale a quattro pistoncini, rappresentava la soluzione perfetta alle nostre esigenze, anche se in realtà abbiamo aumentato lo spessore del disco, passando da 4,5 a 5 mm.”
Per quanto riguarda il veicolo, invece, lo Scrambler è nato senza alcun tipo di riferimento, a partire dal telaio: “Dal momento che dovevamo realizzare una moto diversa da tutte quelle presenti nel listino Ducati, – è sempre Zandi a parlare – abbiamo deciso di partire dal classico foglio bianco. Sulla base dei disegni realizzati da Julien, dunque, abbiamo definito il layout del tealio e le principali quote ciclistiche e con questi parametri è stato allestito il primo muletto.”
“L’idea era quella di mettere in mostra soprattutto il motore, – prosegue Clement – anche perché sulla versione degli anni Settanta il telaio si vedeva pochissimo. L’elemento dominante, al di là della sella e del serbatoio, dunque, doveva essere proprio il propulsore. Allo stesso tempo, però, il telaio doveva risultare molto robusto nella parte posteriore, in modo da sorreggere agevolmente sia il passeggero che gran parte dell’impianto elettrico, ma non per questo ingombrante, perché alla zona di congiunzione tra la sella e il serbatoio doveva essere garantita una compattezza tale da permettere di toccare comodamente per terra con entrambi i piedi, anche ai conducenti di statura più bassa: così sono state installate delle cover che nascondono i tubi del traliccio e riproducono anche la modanatura che sul modello monocilindrico faceva parte della sella stessa.”
Sempre in tema di veicolo, lo Scrambler introduce una particolarità tecnica che lo differenzia da tutte le Ducati attualmente in produzione, anche se in realtà si tratta della conseguenza di una scelta legata al design: il diametro della ruota anteriore, da 18” invece che nell’ormai classica (per gli standard di Borgo Panigale) misura da 17”. Vediamo perché: “Questa caratteristica è stata decisa fin dall’inizio, – spiega Julien – anche se poi ha creato una lunga ricerca per quanto riguarda i pneumatici da installare. Ovviamente, anche lo Scrambler originale aveva la ruota anteriore più grande rispetto a quella posteriore, in modo da potersi adattare alla guida in fuoristrada, e dovevamo mantenere questa impostazione anche per motivi estetici, solo che da 19”, come il modello degli anni Settanta, sarebbe stata troppo grande. La versione attuale, infatti, doveva risultare un po’ più sportiva, così abbiamo installato un cerchio da 17” al posteriore, in grado di calzare un pneumatico da 180/55, e uno da 18” all’anteriore, anche se in realtà la circonferenza di rotolamento è la stessa per entrambi.”
A questo punto, però, è toccato ai tecnici capitanati da Antonio far sì che la moto si guidasse come si deve: “Abbiamo provato davvero tantissimi pneumatici diversi, – racconta – prima di arrivare alla soluzione più adatta alle nostre esigenze e non solo in termini tecnici, ma anche a livello di disegno del battistrada. Alla fine, la scelta è ricaduta sulla famiglia MT60 della Pirelli, un pneumatico che la casa lombarda produce già da diversi anni e che, portando avanti un lavoro a quattro mani, è stato declinato anche in una nuova versione specifica per lo Scrambler.”
Se a qualcuno venisse poi il dubbio che le coperture scelte possano essere fin troppo scolpite, pregiudicandone l’utilizzo su asfalto, Zandi assicura prontamente che: “Hanno un comportamento davvero ottimo, del tutto paragonabile a quello dei Pirelli Angel ST, dall’aspetto decisamente più sportivo. A pensarci bene, però, già con la prima Multistrada 1200, equipaggiata con gli Scorpion Trail, avevamo ottenuto un risultato analogo.”
Sul concetto di semplicità, invece, l’Ingegnere si sente di spendere due parole a proposito di un particolare tecnico che, forse, è passato un po’ in secondo piano: “Questa Ducati nasce con il concetto di world wide, nel senso che trae ispirazione dalla voglia di esplorare, pur avendo a disposizione mezzi tutt’altro che sofisticati, proprio come fecero quasi sessant’anni fa Leopoldo Tartarini e Giorgio Monetti durante il loro giro del mondo. Per questo, sul nuovo Scrambler, troviamo la frizione a cavo bowden: essenziale, affidabile, oltre che facile ed economica da riparare.”
In mezzo a tanta essenzialità, tuttavia, ci sono alcune perle tecnologiche, come il faro a led e la strumentazione digitale. Ce ne parla Clement, che le ha disegnate, smentendo subito alcune voci circa un possibile coinvolgimento di Audi nella loro realizzazione: “E’ vero che Audi dispone di mezzi avanzatissimi nell’ambito del cosiddetto lighting, ma il progetto è partito tre anni fa, quando non c’era ancora collaborazione tra le due aziende. Ad ogni modo, abbiamo lavorato con il nostro fornitore per cercare di trovare il miglior modo di realizzare il gruppo ottico e siamo stati dietro a questo particolare per circa un anno. Oltre all’idea del guidaluce a led, che in un certo senso ricrea la croce di nastro adesivo che veniva applicata sopra al faro da chi praticava il fuoristrada, il problema principale era renderlo così compatto. Non volevo infatti che risultasse troppo grosso, perché altrimenti avrebbe perso parte della sua modernità. Lo stesso discorso vale per la strumentazione: doveva essere piccola, tant’è che a un certo punto ho realizzato un guscio esterno e ho preteso che la versione definitiva non superasse di un solo millimetro quell’ingombro!”
A questi due particolari degni di nota, andrebbero aggiunti anche i fregi che impreziosiscono il motore grazie a una serie di lavorazioni meccaniche sia sui semicarter esterni che sui copricinghie: anche qui era facile fare qualcosa di troppo, di superfluo, invece gli elementi geometrici individuati dal metallo “grezzo” rispetto a quello verniciato ci stanno molto bene e donano valore aggiunto alla moto: “Abbiamo spinto molto per avere le cartelle della distribuzione in alluminio, senza le quali non sarebbe stato possibile ottenere questo effetto. – sottolinea orgoglioso Julien – Ci è sembrato giusto farlo perché, come dicevamo prima, alla fine il bicilindrico raffreddato ad aria rappresenta uno dei protagonisti dell’impatto estetico, l’elemento attorno al quale si sviluppa tutta la moto.”
Con grande onestà, Clement ammette inoltre che la reinterpretazione del famosissimo logo “alato” universalmente associato allo Scrambler, altro dettaglio che comportava una responsabilità non da poco visto che identifica l’intero progetto, non è opera sua. “Io avevo proposto la mia versione, che forse era un po’ più classica rispetto a questa, ma alla fine è stato scelto il lavoro di un’agenzia esterna. Nonostante questo, però, mi sono convinto che è stato giusto così e devo dire che il risultato finale mi piace molto.”
In realtà, di loghi ne esistono addirittura quattro, uno per ogni versione presentata, tant’è che diventa interessante, come ultima curiosità, scoprire quale sia lo Scrambler preferito da Antonio e Julien: “A dire il vero, la mia configurazione preferita è sul mio computer, – dice timidamente Clement – ma non posso farla vedere a nessuno, perché ancora non esiste fisicamente!”
“A me piace molto la Icon, – gli fa eco Zandi – perché rappresenta la base sulla quale abbiamo lavorato tanto per ottenere questo risultato. Poi, da lì, anche io ho già un paio di idee su cosa mi piacerebbe cambiare per personalizzarla un po’!”
L’ingegnere e il designer, Antonio e Julien: due figure apparentemente agli antipodi che, in realtà, si rivelano appassionate nella forma più comune e genuina del termine; due facce della stessa medaglia che, una volta tanto, risultano meno lontane di quanto ci si potrebbe aspettare.