Se Ducati è sopravvissuta a tanti momenti di crisi, alcuni dei quali davvero drammatici, è stato solo perché produceva motociclette, anziché un altro tipo di prodotto.
A dirlo è una persona che la Casa di Borgo Panigale la conosce bene, visto che risponde al nome di Gianluigi Mengoli, attuale Direttore Tecnico Motore e Vice Direttore Prodotto, nonché Chairman della Fondazione Ducati.
Dietro questa frase si nasconde la passione di un uomo che, così come molti altri suoi colleghi, ha dedicato una vita intera a un’azienda e ai frutti che questa ha prodotto in tanti anni di attività.
Passione. Un termine forse abusato, che rischia di andare a farcire concetti perfino retorici quando si parla di Ducati. Eppure, non è possibile scindere il marchio bolognese da questo sentimento. Basta ascoltare Mengoli per capirne il perché: “Ci sono stati degli episodi in cui la passione delle persone che lavoravano qui dentro, dall’operaio all’ingegnere, è stata superiore alla volontà di chi faceva di tutto per far chiudere la fabbrica! Ricordo che, a suo tempo, uno dei responsabili Ducati si licenziò per andare alla Tecnofrigo, un’azienda che produceva compressori per frigoriferi, suggerendomi di fare altrettanto. Io risposi che non avrei mai progettato motori muti!”
E’ anche vero, però, che lo stesso Mengoli è dovuto scendere a compromessi quando, nei periodi bui, in Ducati venivano realizzati anche motori marini, diesel e a petrolio.
Gianluigi non ne fa mistero: “Bisognava adattarsi alle scelte di chi aveva in mano le sorti dell’azienda. Anche quando sono entrati i Castiglioni, che hanno fatto del gran bene alla Ducati, per rimanere a galla decisero che nei primi anni, e più precisamente dal 1985 al 1989, metà della fabbrica, ma forse anche il 60-70%, doveva produrre motori industriali. Alle moto era dedicata un’unica linea di montaggio sulla quale bisognava organizzare tutta la produzione che, nel biennio 1984-1985, oscillava tra le 1700 e le 1900 unità all’anno… Magari, alcuni di noi, di giorno si occupavano di fuoribordo, ma a casa, nel tempo libero, portavano avanti progetti relativi alle due ruote, che sono poi quelli che hanno fatto la fortuna del marchio. Ripeto, se anziché produrre moto, Ducati avesse realizzato profilati o macchine di precisione, molto probabilmente oggi non esisterebbe più, perché molti avrebbero gettato la spugna.”
Sempre a proposito del periodo Castiglioni, Mengoli pone l’accento sul fatto che la crescita esponenziale fatta registrare sotto i due imprenditori varesini fu qualcosa di mai visto prima.
Richieste in continua crescita
In pratica, non si faceva in tempo a dimensionare la produzione per far fronte alle maggiori richieste che queste crescevano ulteriormente (si parla di un incremento del 40% da un anno all’altro). Un’escalation sorprendente che si è protratta fino al 1994-1995, anni in cui, purtroppo, sono emersi i primi allarmanti problemi finanziari.
“Problemi del Gruppo, non dell’azienda – ci tiene a specificare Mengoli – In quegli anni, i nostri prodotti di punta erano la 916 e il Monster, dunque non poteva esserci gamma più solida. Solo che, contemporaneamente, i Castiglioni erano incappati in alcune operazioni finanziarie sfortunate e, purtroppo, come spesso capita in questi casi, furono costretti a vendere il gioiello di famiglia, ovvero la Ducati.”
Ai fratelli Castiglioni, comunque, va il merito di essere stati tra i pochi ad aver capito la grande volontà di sopravvivere da parte dell’azienda, alla quale, pur ricavandone il loro tornaconto, hanno dato tanto.
Se la mentalità fosse rimasta quella relativa al periodo che va dal 1979 al 1984, vale a dire gli anni della statalizzazione, le cose sarebbero andate a finire sicuramente peggio.
Ecco cosa ne pensa Mengoli, in questo atipico excursus a ritroso nel tempo: “Con la riorganizzazione delle partecipazioni statali, nel 1978, Ducati, che all’epoca era l’unica azienda meccanica del Gruppo Efim e veniva vista come un peso perché i suoi bilanci erano sempre in passivo, per motivi tra l’altro non del tutto chiari, fu spostata nell’Iri, creando così un polo industriale del quale faceva parte anche l’Isotta Fraschini e la Grandi Motori di Trieste. A capo di questo gruppo motoristico venne nominata la VM di Ferrara, azienda produttrice di motori diesel all’avanguardia. Ci fu così l’arrivo di quelli che noi chiamavamo bonariamente i metalmezzadri, che trasferirono parte della produzione di motori diesel a elevate prestazioni (che equipaggiavano anche le vetture Alfa Romeo, ndr) all’interno della Ducati. Non bisogna dimenticare che in quel periodo eravamo in piena austerity, dunque i motori alimentati a benzina erano in forte calo rispetto a quelli a gasolio e io stesso ho partecipato ad alcuni di quei progetti.”
La produzione dei motori diesel all’interno della Ducati cesserà solo nel 1989, quando i fratelli Castiglioni, vedendo crescere la produzione delle moto, prendono una decisione senza dubbio difficile, ma risolutiva: 180 dipendenti vengono infatti messi in cassa integrazione, mentre il contratto con la VM per i motori diesel viene sciolto.
In seguito, alcuni di quei dipendenti furono comunque riassorbiti per far fronte alle sempre maggiori richieste del settore moto.
Facciamo, però, un ulteriore passo indietro e arriviamo ai primi anni Settanta. E’ in quel periodo che, a livello di prodotto, si verificano i cambiamenti più importanti per la fabbrica bolognese, che nel frattempo riceve un nuovo stabilimento. Dopo l’epoca pionieristica arriva, insomma, l’era dei bicilindrici.
Dopo l’epoca pionieristica arriva l’era dei bicilindrici
Il plurale non è a caso, visto che, sono due i progetti che si contenderanno la scena in mezzo a un complicato intreccio di interessi per lo più politici.
In pratica, c’è il tentativo di rilanciare l’azienda attraverso la produzione di motori industriali e marini, sia diesel che fuoribordo a due tempi.
In ambito moto, invece, nel 1973 vengono demolite le linee di assemblaggio dello Scrambler, giudicato obsoleto, e parte uno dei capitoli più infelici della storia Ducati, quello del bicilindrico parallelo, sviluppato contro la volontà dell’area tecnica, e quindi dello stesso Fabio Taglioni.
Per fortuna, però, ancora una volta, alcuni “dissidenti” portano avanti lo sviluppo del bicilindrico a L, che poi si dimostrerà vincente, sia in pista che nella produzione di serie.
“Il bicilindrico a coppie coniche è del 1970, – spiega Mengoli – dunque non aveva senso, tre anni più tardi, partire con un progetto completamente nuovo. La scelta più logica era quella di proseguire sulla strada intrapresa, ma le motivazioni furono che la gamma di allora era carente nelle cilindrate medio basse. Se infatti esisteva la 750 Super Sport, che sarebbe poi diventata 1000, sotto quella cubatura c’erano solo i monocilindrici, giudicati ormai obsoleti. Per questo furono introdotti dei bicilindrici paralleli da 350 e 500 cc. Taglioni si oppose fermamente a questa decisione, anche perché il progetto fu sviluppato esternamente dalla Ricardo. Tanto per dire, queste moto furono subito ribattezzate Demonio o Frantoio e, in seguito ai loro deludenti numeri di vendita, la dirigenza finalmente acconsentì, seppur controvoglia, al proseguimento del progetto relativo al bicilindrico a L, che nel frattempo era stato portato avanti nello sviluppo!”
Si dice addirittura che l’OK a continuare con il cosiddetto coppie coniche sia arrivato proprio perché era l’unico prodotto che si riusciva a vendere.
Ciononostante, l’embrione del progetto Pantah stava già prendendo forma. Il primo studio risale infatti alla fine del 1976 e prevede, forse molti non lo sanno o non se lo ricordano, la trasmissione primaria a catena di tipo “morse”, per garantire maggiore silenziosità al propulsore.
Mentre parliamo di questo, Mengoli si alza e va a prendere la fotocopia di una rivista del 1977, dove compare un articolo sulle novità Ducati presentate al Salone di Milano di quell’anno.
Oltre al prototipo del Pantah, in versione monoposto, la Casa di Borgo Panigale aveva allestito anche una sorta di erede dello Scrambler: un monocilindrico di nuova concezione con il manubrio alto, cerchi in lega, doppio freno a disco anteriore e uno stile un po’ americaneggiante, confermato anche dal nome, Utah, il cui studio prevedeva due cilindrate, 350 e 500 cc; esso però non riscosse il successo sperato e non fu pertanto mai messo in produzione.
“Quando c’è una crisi commerciale, i responsabili di questo settore chiedono un prodotto che si vende. In quel caso, sembrava che un monocilindrico con quelle caratteristiche fosse appetibile, invece non faceva parte del nostro DNA. Anche a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta abbiamo rischiato di commettere lo stesso errore. Secondo Castiglioni, infatti, si doveva sviluppare anche un quattro cilindri in linea, da abbinare a un marchio ancora da definire, per competere con le supersportive giapponesi nel campionato Superbike. Naturalmente, io e l’Ingegner Bordi ci opponemmo, così il progetto fu portato avanti in collaborazione con la Ferrari Engineering di Piero Ferrari, figlio di Enzo, mentre lo sviluppo venne fatto comunque all’interno di Ducati. Come molti sanno, quel motore è andato poi a equipaggiare la MV F4, che altro non è che l’erede della 916…”
Non tutto il male viene per nuocere, verrebbe da dire, visto che Ducati ha vinto titoli mondiali a raffica con il bicilindrico a quattro valvole, mentre Castiglioni, con il quattro cilindri MV, è riuscito a realizzare una delle sportive stradali più belle e performanti del mondo…
Tornando al difficile rapporto che c’è sempre stato tra dirigenza e ufficio tecnico, Mengoli cita un altro esempio interessante: “Anche il Paso, se vogliamo, nasce da un’intuizione commerciale. Era infatti la risposta italiana alla Honda VFR. In questo caso, però, è stata la grande mano di Tamburini a decretarne la fortuna, visto che a livello filosofico, pur mantenendo la caratteristica motorizzazione Ducati, ci si era allontanati molto da quelli che, secondo me, devono rimanere gli elementi distintivi dei nostri prodotti.”
Il riferimento è, ovviamente, al telaio in traliccio di tubi, che la sportiva dedicata al compianto Pasolini aveva rimpiazzato con una struttura in tubi quadri, mai più adottata in seguito.
Addirittura, proseguendo nel discorso, si scopre come anche il sistema desmodromico abbia rischiato di essere messo al bando quando, nella seconda metà degli anni Ottanta, la dirigenza evidenziò l’esigenza di innalzare le prestazioni della gamma sportiva.
“Il 750 della serie Pantah era prossimo all’aggiornamento che lo avrebbe portato a 900 cc, ma c’era ancora chi sosteneva che questo espediente non era sufficiente e che bisognava realizzare un motore a quattro valvole per cilindro. Fu perciò contattata la Cosworth che, se non sbaglio, chiese qualcosa come un miliardo e mezzo per sviluppare questo progetto, ponendo però il vincolo di eliminare la distribuzione desmodromica. La fortuna fu che il nostro bicilindrico aveva una struttura modulare, nel senso che poteva essere maggiorato di cubatura senza intervenire sui carter, oltre al fatto di poter essere montato su tutta la gamma indipendentemente dalla cilindrata, dunque presentava dei vantaggi non trascurabili a livello di industrializzazione rispetto a un progetto completamente nuovo. Va anche detto che l’Ingegner Taglioni non era molto interessato alla produzione, lui seguiva principalmente le corse, ma nonostante questo non si è mai pronunciato favorevolmente nei confronti di un bicilindrico desmo a quattro valvole. Lui continuava infatti a sostenere il desmodue. La situazione vedeva dunque la dirigenza che spingeva per realizzare esternamente un quattro valvole senza il desmo, Taglioni che si schierava a favore del suo due valvole, e il sottoscritto e Bordi che, viceversa, eravamo convinti di poter realizzare un desmoquattro di elevate prestazioni secondo la migliore tradizione Ducati. Per convincere i vari oppositori, però, bisognava realizzarlo!”
E’ così che Mengoli realizza, a casa sua, i primi disegni del bicilindrico che andrà poi a equipaggiare la famosa 748 ie che partecipa al Bol d’Or con Lucchinelli, Garriga e Ferrari.
L’epilogo di quella spedizione in terra francese non è dei migliori (la moto si romperà durante la gara per il cedimento di una biella), ma la dimostrazione di competitività è comunque sufficiente a mettere tutti d’accordo: il futuro della Ducati, nelle competizioni così come nella produzione di serie, sarà ancora desmodromico.
Da lì, infatti, nascerà il progetto 851, che verrà ultimato a metà del 1987.
“La chiave di volta del motore desmoquattro – prosegue Mengoli – fu quella di utilizzare la canna all’interno della quale è alloggiata la candela come supporto per i bilancieri. Se da una parte io e Bordi non avevamo dubbi sul fatto che quella di mantenere il desmo fosse la scelta più giusta, dall’altra dovevamo trovare il modo di far convivere all’interno della testa il doppio delle valvole alle quali eravamo abituati e la distribuzione desmodromica. A livello tecnico, infatti, avere quattro valvole per cilindro imponeva il posizionamento della candela nel centro, ma in questo modo non rimaneva più lo spazio per alloggiare il desmo…”
In realtà, quel motore impiega anche altre caratteristiche tecniche innovative per la gamma Ducati di allora: il raffreddamento a liquido e l’iniezione elettronica.
A Mengoli abbiamo chiesto perché, su quel progetto, si è sentita la necessità di concentrare la massima tecnologia disponibile, trasferendola poi al prodotto di serie: “Il motivo è semplice: con quel propulsore dovevamo andare a correre in Superbike, perciò lo equipaggiammo con quelle che erano le specifiche dei motori più evoluti dell’epoca, vale a dire quelli di Formula 1. Ecco il perché dell’iniezione elettronica, del raffreddamento a liquido e delle quattro valvole per cilindro, che sono tutt’oggi la massima espressione tecnologica sia nelle corse che nella nostra produzione.”
Insomma, se Taglioni ha avuto l’enorme merito di impiantare le radici di quelli che sono i concetti tecnici fondamentali delle moto di Borgo Panigale, Bordi e Mengoli hanno annaffiato con amore e fatto germogliare questa pianta fino a farla diventare un albero dal tronco robusto.
Da tutti questi episodi, comunque, tra le righe si legge che molti dei più importanti progetti Ducati hanno preso forma senza che l’azienda ci credesse veramente, come testimonia il fatto che le prime 851 siano state realizzare con le teste e i cilindri fusi in terra, anziché con attrezzature di produzione.
“La prima gara del Mondiale Superbike – spiega Mengoli – l’ha vinta Lucchinelli in Inghilterra, nel 1988. Se vogliamo, la nostra arma migliore sono sempre state le competizioni. Attraverso le corse, infatti, oltre a promuovere la nostra immagine e sviluppare i nostri prodotti di serie, siamo sempre riusciti a convincere chi stava a capo della fabbrica che le nostre scelte tecniche erano vincenti. Se si pensa che, quando è nato, il motore Pantah aveva 500 cc e 48 Cv, mentre oggi, in un basamento che presenta esattamente gli stessi ingombri, siamo arrivati a 1000 cc e circa 200 Cv con il motore da Superbike, si capisce subito cosa intendo.”
In questo percorso avanti e indietro nel tempo, Mengoli chiude con una considerazione sull’ultimo decennio trascorso, vale a dire quello che ha visto alternarsi prima la Texas Pacific Group e poi la Investindustrial ai vertici dell’azienda: “In questi ultimi anni, Ducati ha conosciuto una grande valorizzazione a livello di immagine, grazie a Federico Minoli. Al di là di questo, però, devo riconoscere che uno dei più grandi meriti di questo presidente è stato quello di portare avanti anche un profondo aggiornamento dell’area tecnica, che sta continuando tutt’ora. Grazie a lui siamo riusciti a costruire una struttura all’avanguardia e, soprattutto, all’altezza dei nostri prodotti. Le richieste che io stesso ho presentato di volta in volta sono sempre state accettate con grande sensibilità e questo ci ha fatto fare un ulteriore passo in avanti.”
Dopo i tempi in cui si era costretti a lavorare quasi di nascosto, come dei carbonari, è arrivato dunque il momento della riscossa. Oggi la fabbrica Ducati è guardata con grande rispetto e ammirazione dalla concorrenza. Le persone che vi lavorano sono animate dalla consapevolezza di contribuire a qualcosa di importante. Uno stimolo che non ha mai mostrato segnali di calo, come se attingesse da un fuoco inestinguibile. Difficile chiamarla semplicemente passione…
Eclettico personaggio valente tecnico e sopratutto molto umano grazie da un appassionato Dicato