Diego Guerra è un simpatico ragazzone che abita a Dossobuono, vicino Verona. Lo conobbi parecchi anni fa quando risposi a un annuncio per una Triumph Speed Triple un po’ particolare e mi presentai a casa sua per vederla. Mi accompagnò nel suo enorme box: ovunque mi giravo il mio sguardo veniva catturato da pezzi e parti speciali di varia provenienza.
Sotto un telone, una stupenda Laverda SF del 1969 (il suo stesso anno di nascita) tirata a lucido. Sopra a un banco di lavoro, alcuni attrezzi fra cui una mola per lucidare ricavata con pezzi di risulta (un gruppo motore di una lavatrice!), scarichi e carene appesi qua e là. Insomma, un’atmosfera ricca di fervore creativo!
Poco più in là arrivammo alla sua Triumph, soprannominata Slippery Sam, come la Trident ufficiale del Bol d’Or dei primi anni ’70. Era piena di parti speciali, modificate e lucidate, restai a lungo a osservarne i dettagli, mi figuravo ore e ore di lavoro. Ebbi poi l’occasione di provarla, anche se alla fine il deal non si chiuse.
Ogni tanto ci incontravamo ancora ai mercatini dove andavamo in cerca di quei pezzi che non si trovano mai (e finisci invariabilmente per comprare altro), oppure ci sentivamo via social, come molti di quelli che condividono la stessa passione.
Qualche mese fa Diego mi ha dato appuntamento al Motor Bike Expo di Verona, annunciandomi che stava lavorando a qualcosa di più serio: avendo ben presente la sua certosina manualità, accoppiata a una cultura motociclistica di tutto rispetto e a un amore per le ‘citazioni’, la mia curiosità era tanta!
Ci siamo quindi ritrovati al Motor Bike Expo, al concorso ‘Ferro dell’Anno’ 2019 in cui presentava la sua nuova creazione su base Ducati. In effetti sembrava un po’ fuori posto in quell’occasione: una pistaiola purosangue molto rigorosa e specialistica fra tanti mezzi ‘sellapiattisti’, serbatoi abrasi e geometrie opinabili che puntavano tutto sull’estetica e sul colpo d’occhio immediato, come va di moda oggi.
Avevo l’impressione che non sarebbe stata capita: infatti la giuria ha preferito una moto più trendy, ma Diego è contento del suo lavoro: in fondo lui non era lì per convincere qualcuno.
“Sono da sempre un appassionato di moto, ho iniziato da ragazzino a trafficare coi motorini di famiglia; fin da poco più che decenne, il mio massimo divertimento era smontarli e rimontarli per poi distruggerli a forza di salti durante le incursioni in fuoristrada nei campetti vicino casa. Di mestiere oggi faccio il disegnatore e progettista meccanico e, visto che mi piace metter mano alle mie moto per personalizzarle, mi frullano sempre tante idee per la testa. Ho una fissa per l’alluminio lavorato, lucidato, sagomato. Nel tempo libero mi diverto a realizzare o modificare i componenti, seguendo l’estro del momento. È quello che ho fatto con la Triumph Slippery Sam che ti è piaciuta tanto, e anche con la Laverda, su cui ho messo mano, ma con estremo rispetto”.
Con questa Ducati, da dove sei partito? “Una sera di qualche anno fa, era il 2016, con il mio amico Marco ‘Larimotori’ andai a trovare il compianto Adriano Zanoni (a.k.a. Taraky): lui e la sua officina erano conosciutissimi per le special da pista e le preparazioni ciclistiche su base Ducati. Mentre ammiravo le sue numerose opere d’arte (era un vero virtuoso del cannello) scorsi in un angolo della sua officina una sua realizzazione, un prezioso telaio in acciaio CrMo replica TT1 per Ducati che giaceva impolverato e abbandonato. Poco più in là c’erano anche un forcellone e diverse altre parti in alluminio che aveva creato con la sua incredibile manualità artigianale. Vincendo qualche ritrosia, lo convinsi a cedermeli: secondo me non aveva la più pallida idea di cosa volessi farne, ma alla fine me li portai via per una cifra ragionevole”.
Ma tu cosa avevi in mente di tirarne fuori? “La moto a cui mi sono ispirato è la Ducati TT1-TT2 ideata da Taglioni a inizio anni ‘80. Erano moto incredibili, molto artigianali, delle sportive purosangue italiane che mi hanno sempre appassionato (e si capisce!, ndr). Fra i ricordi fondanti della mia gioventù di passione, ci sono quelli legati a Donato Battistoni, di cui all’epoca bazzicavo il garage. Era il 1983 e lui faceva il campionato TT2. Non ti dico cosa provavamo noi ragazzini quando lui in cortile accendeva il motore con lo scarico aperto a megafono! A pensarci mi vengono ancora i brividi!”.
Ducati TT2/TT1: la capostipite
La TT2 viene sviluppata nel 1981 a partire dalla nuova base meccanica Pantah, introdotta nel 1979. La piattaforma bicilindrica a L con distribuzione a cinghie dentate, creata per equipaggiare le medie Ducati in seguito allo scarso successo dei motori bicilindrici paralleli, rivela fin da subito un’ottima propensione alle gare.
Fin dal 1980, i Pantah vengono utilizzati da numerosi privati nelle gare per derivate di serie, grazie anche a un kit fornito direttamente da Ducati. E’ nel 1981 che viene messa in produzione una versione con cilindrata di 582 cc conforme al regolamento TT F2, di cui vengono prodotti una quarantina di esemplari.
Ma risponde a verità la ‘leggenda metropolitana’ secondo cui queste moto vennero sviluppate quasi di nascosto dalla dirigenza?
Racconta Livio Lodi, curatore del Museo Ducati: “In realtà si era in un momento particolare, in cui si temeva che la produzione di motociclette sarebbe stata interrotta da un momento all’altro. Taglioni e i suoi decisero di creare una sorta di ‘canto del cigno’, una moto estrema”.
Visto che il regolamento permette una certa libertà, si coinvolgono i migliori fornitori, dalla NCR a Verlicchi per il telaio, Marzocchi e Paioli per le sospensioni e la Campagnolo per le ruote, in modo da realizzare una moto compatta e leggera. L’interasse resta sotto i 1400 mm, il peso si ferma ad appena 122 kg.
La moto vince all’esordio la prova TT F2 di Misano con Sauro Pazzaglia.
Intanto la Sports Motor Cycles di Steve Wynne, quella della fortunata impresa di Hailwood al TT del ’78, iscrive l’esperto pilota Tony Rutter al campionato del mondo TT Formula 2 del 1981. La serie si corre su due sole prove: la prima gara in occasione del Tourist Trophy e la seconda all’Ulster GP.
Tony Rutter aveva già vinto due TT fra il ’73 e il ’74, a bordo di un Pantah preparato da Sports Motor Cycles, si impone anche nell’81.
Per la prova successiva, l’Ulster GP, arriva da Bologna una TT2 ufficiale. Tony Rutter, grazie al secondo posto nella bagnatissima gara dell’Ulster, si laurea per la prima volta campione del mondo classe TT F2: inizia così un dominio incontrastato nel campionato TT F2.
Negli anni successivi il mondiale diverrà via via più articolato, ma Tony lo vince per 4 edizioni consecutive; fallisce il quinto titolo del 1985 soltanto a causa di un bruttissimo incidente al Montjuich che pone virtualmente fine alla sua carriera di pilota.
Sono le prime vittorie iridate per uno schema tecnico, quello del telaio a traliccio e del motore bicilindrico desmo con comando a cinghie, che raccoglierà un’enorme messe di allori nelle gare per derivate di serie per i tre decenni a venire.
La squadra di ingegneri capitanata da Fabio Taglioni si appassiona subito a questo progetto, fornendo continue migliorie a un mezzo che punta tutto sul rapporto peso-potenza e sull’efficacia della ciclistica.
Nel 1984, a seguito di un cambio di regolamento del campionato TT Formula1 (la cilindrata massima viene ridotta da 1000 a 750 cc), in Ducati si decide di approntare una versione maggiorata della moto, che in configurazione gara eroga 94 Cv a 10.000 giri minuto.
A partire dal 1984, Tony Rutter scende in pista in entrambe le categorie, ma con poca fortuna nella classe maggiore, in cui il confronto con la Honda RVF a 4 cilindri di Joey Dunlop è proibitivo.
Va meglio nella categoria Endurance, dove la TT1 si piazza terza alla 24 ore di Spa e ottiene una splendida vittoria alla 24 Ore del Montjuich.
La TT1/TT2 rimane una delle più affascinanti motociclette da corsa prodotte dal Marchio di Borgo Panigale. Ma quante TT1 sono state prodotte?
Livio non fornisce una cifra precisa: “Secondo le mie informazioni, da quattro a sei. Alcune sono poi state cannibalizzate per proseguire il programma agonistico con la 750 F1”.
Nel 1985, infatti, Ducati entra sotto controllo di Cagiva, la proprietà è molto motivata all’impegno nelle corse, così che la TT1 viene ulteriormente evoluta nella 750 F1, di cui vedrà la luce anche una stupenda versione stradale, una vera moto da corsa con frecce e specchietti.
Quindi, quando ci incontravamo alle mostre-scambio, tu stavi in giro per lei? “Esatto. Con il tempo, e combattendo con ineludibili limiti finanziari, ho messo insieme un po’ di pezzi giusti: anzitutto delle forcelle Paioli diametro 43 mm regolabili, di provenienza Bimota, montate su piastre ricavate dal pieno. Al posteriore un monoammortizzatore della Öhlins modificato nell’idraulica e opportunamente allungato: ho calcolato le geometrie per ottenere il giusto livello di reattività e stabilità. Quindi un impianto frenante Brembo Serie Oro più che adeguato all’uso in pista. Completa la ciclistica il forcellone, quasi minimalista, realizzato a mano da Taraky. Le ruote sono da 17”, di derivazione Ducati SS. Per ora ho messo queste, anche se mi piacerebbe trovare dei cerchi da corsa in magnesio anni Ottanta, che sarebbero proprio in tema. Come gomme, ovviamente, delle slick Metzeler per uso pista”.
Il motore? “La TT1 montava un’unità Pantah portata a 750: in configurazione ufficiale oltrepassava i 90 Cv. Io ho optato per un 900 SS ‘valvoloni’, che si adatta perfettamente alla sezione del telaio creato da Taraky e mi dà la stessa resa dell’originale, ma con un’affidabilità decisamente maggiore. La preparazione è stata curata dal bravissimo Girolamo Croce che non si è spinto troppo in là, non era necessario. Abbiamo installato dei carburatori maggiorati, con condotto da 41 mm e pompette di ripresa, poi mi ha lavorato le teste per accordare meglio i flussi e abbiamo montato una frizione in ergal, più leggera e prestante. Lo scarico è stato eseguito dal mio amico Pietro Fasoli, un vero specialista, che ha eseguito tre cambi di sezione e lo ha conformato in modo da ottenere due collettori di scarico di uguale lunghezza, garantendo una resa ottimale a tutti i regimi di rotazione. Per la parte finale mi sono divertito io: l’ho tornita dal pieno in bronzo, aggiungendo il tocco finale della reticella metallica esagonale (recuperata dal foro di areazione di un vecchio computer). A dire il vero, avrei in progetto un impianto completo in titanio della MASS, ma al momento è nel cassetto dei sogni. Completano l’allestimento semimanubri, leveraggi, staffe, supporti vari che ho ricavato dal pieno, per dare un aspetto da prototipo racing. Naturalmente la viteria (alleggerita) è forata e fissata con fil di ferro anti-allentamento”.
Parliamo della carrozzeria? “Ti è piaciuta? Le carene in vetroresina (Europlast Succi) sono ispirate a quelle delle Ducati TT1 ufficiali di metà anni ‘80, verniciate in quell’indimenticabile livrea rosso-blu, con gli sponsor tecnici e tutto. Io le ho opportunamente personalizzate, rivisitate, tagliate, forate seguendo il mio gusto e l’ispirazione del momento. Ne sono molto contento, almeno finché non le riguardo e mi viene voglia di rimetterci mano! L’ultima mia idea sarebbe di creare delle prese d’aria tipo NACA in alluminio battuto, materiale che mi piace molto, ma dovrei ancora prendere un po’ di pratica nella battitura della lastra: vedremo”.
L’hai già provata in pista? “Certamente, non l’ho mica fatta per esposizione! Appena ho potuto l’ho portata fra i cordoli. Si è dimostrata agile e veloce nei cambi di direzione, ma allo stesso tempo precisa e stabile in staccata e in percorrenza. Si nota subito che il telaio è da corsa, visto che non ha mai la minima esitazione o ondeggiamento, non si scompone mai. Direi che è una vera Ducati old-style, molto ‘maschia’ e anche scomoda, viste le quote raccolte: a me, che non ho una corporatura proprio da fantino, richiede molto impegno fisico, il comfort è ovviamente limitato. Ad esempio, visto che in rilascio le ghigliottine dei carburatori si ‘incollano’ al corpo del carburatore, riprendere in mano il gas richiede un bello sforzo! In compenso la frenata è robusta grazie alla moderna pinza radiale e al peso limitato (145 Kg). Il motore poi ha molta schiena, quindi salendo di marcia non manca mai il tiro. Mi ci diverto molto, diciamo che sta diventando il mio giocattolo da pista e cerco di usarla il più possibile!”.
Il nome, da dove viene? “GD09 è una cosa che porto avanti fin da ragazzino. Il mio primo motorino, un tubone OMC messo giù ‘da sparo’ lo chiamai GD01, poi a 18 anni arrivò la mia prima moto vera, una Dominator con cui ho fatto di tutto, era la GD02, e così via fino ad arrivare alla GD09. Pensa che questa moto ha anche un soprannome: l’ho chiamata (in dialetto) ‘Magnabuloni’: all’ultima uscita in pista i carburatori hanno risucchiato un dado, allentatosi a causa dei miei ripetuti interventi e rimontaggi. Per fortuna è sceso nel cilindro solo al momento di riavviarla all’ultimo turno, mentre ero in corsia box, altrimenti sai che frittata! Pensare che mentre ero in pista, nel turno precedente, era lì che sbatteva nel condotto di aspirazione appena sopra alla ghigliottina del carburatore! Quando sono tornato dal Girolamo Croce è sbottato in dialetto: ‘Te sèite piciare, basta far atti con ‘ste pòre moto! Làssale stare na ‘olta!’ (traduzione: Continui a metterci mano, non fare più nulla a queste povere moto, lasciale stare una buona volta!)”.
Progetti per il futuro? “Tante cose che mi frullano nella testa. Ho diversi amici guzzisti sfegatati, potrei anche cimentarmi in una moto dell’Aquila. Ad esempio, mi manca un mezzo fuoristrada, per me sarebbe il ritorno alle origini. Come tutti quelli della mia generazione, ho il mito della Dakar, quella vera, nei deserti africani. Era l’avventura per antonomasia: chi di noi non sognava di riuscire a prendervi parte? Io ero stratifoso di Cagiva-Ducati: Hubert Oriol, De Petri, Orioli erano i miei preferiti. Quindi nella mia testa avrei un’endurona su cui plasmare quelle sovrastrutture stile Dakar anni ’80. Per intendersi, quelle senza il cupolino integrato al serbatoio, mal raccordate e un po’ accrocchiate, soprattutto dopo le tirate desertiche. La tabella porta numero ovale, magari con la replica del numero di gara con il mitico sponsor VSD, il serbatoio mastodontico, magari sdoppiato, quello che ricopriva la linea di cintura fin quasi alle pedane. La trousse degli attrezzi in cuoio, le grate sui fanali, il tassello da deserto, paramani Ramirez con sovrastruttura in alluminio. Infine, le grafiche tabaccaie a richiamo di quei tempi. Un lavoro diverso, non come le altre moto che ho fatto, tutte curate e rifinite, ma al contrario un po’ grezza, vissuta, piena di fascino racing, ma anche pratica per l’uso quotidiano”.
Donato Battistoni
Donato Battistoni di Dossobuono, classe 1955, è stato un ottimo pilota privato che, negli anni ’80, si è confrontato con alcuni dei più autorevoli esponenti del mondo delle gare per derivate di serie, come Villa, Lucchinelli, Ferrari e Tardozzi.
Inizia nel 1981, grazie a un gruppo di amici capitanati da Renato Ciccarelli che fa loro da ‘team manager’: abbandonato in una cantina nel veronese trovano un vecchio Laverda Formula 500 e, quasi per gioco, decidono di iscriversi al monomarca dedicato: “La moto spesso si rompeva, oppure ero io a cadere: avevamo pochi mezzi, le gomme erano vecchie e io, di corporatura robusta, cercavo di sopperire in curva alla carenza di velocità di punta, prendendomi dei rischi in più. Più di qualche volta andava male! Poi passammo al campionato italiano TT2, prima con il Laverda, quindi con una Ducati TT2 che avevamo assemblato grazie all’aiuto di alcuni amici di Mantova che avevano entrature in NCR. Nel 1984 passai a una TT2 semiufficiale, curata da Consolini e Riva di Mantova, con cui correvo anche nell’Endurance. L’anno dopo scendemmo in pista con un telaio sperimentale in acciaio, stile Deltabox, messo a punto da Nello Rama di Nogarole Rocca, con cui più tardi collaborò un giovane e già brillante ingegnere, Gigi Dall’Igna. Quella moto, dotata di ruote da 16” e con motore 600 cc, venne in seguito modificata e portata a 750 grazie a dei carter larghi arrivati da Bologna tramite le solite amicizie. Venne anche provvista di un forcellone Verlicchi in alluminio, di un avantreno con forcelle Italia da 38 mm e pinze Brembo 08 come quelle della TT2”.
Oggi Donato scende ancora in pista, nelle gare dedicate alle moto d’epoca, sempre con una Ducati replica TT2, e si diverte un sacco in questo ambiente sano, che gli ricorda quello delle gare di trent’anni fa.
I modelli Ducati degli anni ’80 portavano i 2 carburatori posteriormente ai cilindri non tutti e due tra i cilindri.