Nel 1979 la Ducati, in stretta collaborazione con la NCR di Giorgio Nepoti e Rino Caracchi, decise di impegnarsi nella Coppa Europa Endurance. Un periodo questo sicuramente poco esplorato nel rievocare i trascorsi sportivi della Ducati, ma tuttavia interessante per molti aspetti: una moto affascinante, la 900 Super Sport, lo scenario sicuramente avvincente delle gare di durata e, infine, la grande personalità e il grande peso degli uomini che furono gli artefici di questi eventi.
Mario Lega, campione del mondo della classe 250 nel 1977 con la Morbidelli, fu uno di questi. Con Mario abbiamo avuto modo di ricostruire sotto vari punti di vista quegli episodi.
Quello che ne è venuto fuori è uno spaccato ricco di aneddoti, in quel 1979 che, per l’Italia motociclistica, fu quasi esclusivamente segnato dalla sfida tra Virginio Ferrari e Kenny Roberts per il titolo mondiale della classe 500.
“Venivo dalla mia ultima stagione nei Gran Premi, – inizia a raccontare Mario – quella del 1978 con la Morbidelli. Ci lasciammo di comune accordo, perché nessuno dei due era più soddisfatto dell’altro. Loro presero Graziano Rossi, il papà di Valentino. Io rimasi a piedi, finché non ricevetti la chiamata della NCR: mi chiedevano se fossi intenzionato a disputare il campionato europeo Endurance, che allora non era ancora Mondiale. Mi ricordo che avevo la barba, perché mi ero imposto di non tagliarla finché non avessi trovato di nuovo una sella. Tenni fede al fioretto, incontrai gli uomini della Ducati con la barba e me la tagliai solo quando raggiungemmo l’accordo!”
Mario, a questo punto è un pilota della Casa di Borgo Panigale: “Sì, perché il mio contratto era da pilota ufficiale, stipulato con la Ducati, che nell’operazione forniva i motori e le moto, che poi venivano gestiti dalla NCR. Farné lavorava all’interno e si divideva fra la fabbrica e la struttura di Caracchi e Nepoti.”
Senza più la barba, il pilota di Lugo di Romagna si appresta dunque a intraprendere la nuova avventura: “All’inizio, il co-equiper fu Victor Palomo. Prima di me, in Ducati c’era Sauro Pazzaglia, che fu accoppiato ad Arturo Venanzi. Fu proprio Sauro a svolgere tutta la mole dei test, soprattutto quelli con le gomme Michelin. La prima gara fu la 24 Ore di Le Mans. Corremmo sotto la pioggia e questa non fu certo una novità. Dopo la partenza cadde Victor; riparammo la moto e caddi anch’io. Fu riparata di nuovo, ma Palomo cadde ancora, stavolta facendosi veramente male. Si ruppe il naso, cosa che lo rendeva orribile da vedere, oltre a ferirsi a un braccio e a una gamba. Così, a sostituirlo, subentrò Vanes Francini.”
Chissà com’era dividere la sella, e quindi i settaggi della moto, con altri piloti? “C’è da dire che Victor era alto un metro e ottanta, – prosegue Lega – io una decina di centimetri meno di lui, quindi giravo con uno spessore che fissavo alla battuta del codone ogni volta che era il mio turno di salire sulla moto. Lo attaccavo e lo staccavo con il velcro. Questo mi permetteva di avere comunque la giusta distanza tra sella e serbatoio. Anche il peso fra noi era diverso e le regolazioni non erano ideali. Io sono uno che si adatta facilmente e quindi le facevo fare a lui. Quando era a posto lui, io andavo di conseguenza.”
Poi, dunque, vi fu l’arrivo di Vanes Francini: “Con lui le cose furono diverse: eravamo più o meno della stessa taglia e avevamo le stesse idee. Solo la sfortuna impedì che in coppia con Vanes non riuscissimo a portare a casa risultati concreti. Arrivammo fino al punto che Vanes diceva che quando la moto andava bene a me, lui non l’avrebbe neanche provata perché era sicuro che gli andasse altrettanto bene.”
A questo proposito Mario Lega racconta un aneddoto: “Stavamo disputando le prove del Bol d’Or, sul circuito di Paul Ricard. Io scesi dalla moto e dissi che per me andava bene così, Vanes allora rispose che per lui non sarebbe stato necessario girare. Fui io a insistere perché facesse un paio di giri. Ci fu un tira e molla e alla fine riuscii a convincerlo. Francini entrò in pista e dopo un paio di giri, in pieno rettilineo, gli si ruppe il cerchio posteriore, forse per un difetto di fusione, e cadde paurosamente, rompendosi la clavicola, non potendo più così prendere parte alla gara.”
Fu la premessa di un weekend di gara decisamente sfortunato: “E’ vero. Si aggirava nel paddock un pilota, un certo Tost, tedesco che si era messo in mostra al Nurburgring. Fu lui a rimpiazzare Vanes. Al via, la moto non ne voleva sapere di partire e quando finalmente si accese gli altri erano già lontani. Riuscii ad arrivare alla fine del turno in rimonta, circa al ventiduesimo posto. Poi toccò a Tost. Quasi non ero ancora sceso che cadde. Fui richiamato e toccò quasi subito di nuovo a me. Per recuperare di nuovo feci ‘il corridore’, cioè tralasciai le regole di guida misurata, tesa al risparmio delle energie mie e della moto, che erano da osservare nelle gare di durata e che io, essendo un ‘corridore’, come estrazione, stavo assimilando. Poi si allentò una guarnizione del circuito idraulico dei freni. Mi fermai perché la leva arrivava ormai a toccare la manopola.”
A quel punto Lega decise di farsi fare anche il pieno e di continuare: “Avevo girato per un turno e mezzo. Quando mi fermai, invece di mangiare mi riempii di liquidi, che nella notte fecero il loro effetto: cominciai ad avere agitazione di stomaco e mi portarono in infermeria. Mi misero una flebo e mi addormentai sul lettino. A svegliarmi venne Farné, che mi disse che Tost era al limite di guida consentito, che lo vedevano andare a destra e sinistra dalla stanchezza. Mi chiese come stavo. L’ago della flebo era andato fuori vena: avevo un braccio che sembrava quello di Braccio di Ferro, non stavo bene, però andai. Così ripresi a girare. Tost aveva perso molte posizioni e io mi rimboccai le maniche, pensando che, tutto sommato, mi sentivo sempre meglio, girando alla fine a due secondi dal mio tempo di riferimento. Questo finché non arrivai alle spalle di Sauro Pazzaglia, che procedeva lento lungo il percorso con il braccio alzato: aveva rotto. Come lo passai, mi arrivò l’odore dell’olio bruciato, mi si rivoltò lo stomaco! Mi fermai senza avvisare e non ce la feci a continuare. Morale: ci ritirammo. Me ne dissero di tutti i colori, dato che in una delle volte in cui non si rompeva la moto in una gara di 24 ore, mi ero rotto io e così mi presi pure della mezza pugnetta!”
Fu l’ultima gara di Lega con la Ducati. Però durante quella stagione c’erano stati momenti decisamente migliori: “I risultati vennero soprattutto in coppia con Victor. Avevamo lo stesso passo, anche lui aveva un bel passato in 250, magari aveva raccolto meno di me, ma il fatto era che, per così dire, avevamo lo stesso peso, lo stesso valore. Quindi era un bel girare, era un conforto sapere che durante il riposo fra un turno e l’altro, il tuo compagno non avrebbe perso posizioni. Il team stesso era sereno, non c’era rivalità. C’erano dei giorni che lui andava meglio di me, mentre io andavo meglio sul bagnato. Il nostro riferimento era la coppia Léon-Chemarin, che con la Honda era quella che vinceva tutto. Ci specchiavamo in loro: erano veramente come due fratelli!”
Mario e Victor Palomo ebbero dunque i loro momenti di gloria: “Nella 6 Ore di Assen ci classificammo secondi sotto una specie di diluvio universale. Mi ricordo che mi ero messo dietro a Léon e avevo una slick scolpita a mano, giusto con qualche intaglio per drenare l’acqua: l’avevo scelta conoscendo bene il grip eccezionale dell’asfalto della pista olandese. Il pilota della Honda continuava a girarsi, forse non capacitandosi di come non riuscisse a scrollarsi di dosso la mia Ducati. Lo tallonavo così da vicino che, a furia di sentire la pressione che gli mettevo, cadde. Io, passando davanti al muretto dei box, senza la compagnia di Léon, non riuscii a trattenermi e feci un gesto come a dire: avete visto che ce l’ho fatta a farlo cadere! Non seppi trattenermi nell’entusiasmo!”
L’emozione manifestata in pista da Mario ebbe riscontro anche ai box, finita la gara: “Feci addirittura piangere Giorgio Nepoti. Andò così: una volta raggiunta la seconda posizione, iniziò il patema dell’ultima tornata di giri che ci separavano dall’impresa. Ogni segnale era degno di nota e nelle frenate Giorgione guardava quanto stava acceso lo stop degli altri e quanto il mio. Nepoti aveva notato che la luce degli altri stava accesa decisamente più della mia, che invece si accendeva e si spegneva subito. Iniziò a pensare che andassi troppo forte, che stessi rischiando oltre misura e che sarei andato a gambe all’aria da un momento all’altro. Questa cosa gli procurò uno stress tale che quando arrivai al traguardo, mi borbottò qualcosa e mi abbracciò scoppiando in lacrime. Arrivammo dietro alla sola Kawasaki dell’equipaggio Huguet-Moineau.”
Il podio venne conquistato anche al Nurburgring: “Di quel risultato mi vanto ancora adesso. – si compiace Mario – Arrivammo terzi, con le difficoltà di quella pista che era terribile quanto affascinante. Eravamo in lotta con la Kawasaki. Victor e io ci davamo i cambi sempre vicini alla Kawasaki dell’écurie Pipard, in un duello avvincente. Durante il mio turno, mi accorsi che il pilota della Kawasaki che avevo davanti distendeva le gambe per sgranchirsi, o forse per un crampo. Io ne approfittai, riuscendo a passarlo e perfino a staccarlo. Victor mantenne il vantaggio e arrivammo sul podio. Quel risultato, su quella pista, rappresentò una soddisfazione enorme.”
Le gare da podio, di Assen e del Nurburgring, portarono la Ducati 900 SS in alto nella classifica.
“Quei risultati e altri piazzamenti ci portarono al terzo posto in classifica generale, pur non avendo corso a Le Mans e nonostante il ritiro al Bol d’Or. Inoltre, ciò che aggiungeva valore al risultato era che la nostra risultava essere la prima moto bicilindrica e la prima moto europea. Insomma, ce n’erano di aspetti che avevano il sapore dell’impresa!”
“Durante la gara, Giorgione Nepoti aveva accumulato talmente tanto stress che quando tagliai il traguardo scoppiò in lacrime…”
Poi, però, non si arrivò a finire la stagione: “Sì, dopo la gara del Bol d’Or avremmo dovuto andare a Misano, in una delle gare corte, dove io e Vanes ci sentivamo forti. La gara invece fu annullata per motivi organizzativi e, pur mancando un paio di gare alla fine della stagione, la Ducati prese la decisione di fermarsi lì e di non prendervi parte. Peccato, anche perché nel team si stava bene, c’era amicizia e ironia, il che non guasta mai; ci fu soltanto qualche screzio con Farné, ma nulla di grave, oggi ci salutiamo e ci parliamo senza problemi. Del resto, in quale famiglia non ci sono dei piccoli scontri? E noi eravamo una famiglia. Però, senza preavviso, scegliendo di non difendere il terzo posto che eravamo riusciti a raggiungere, in Ducati non vollero proseguire. Così la storia finì lì, non dandomi neppure la possibilità di mettermi in contatto con altri team, dove avrei senz’altro trovato un posto in quanto era diventato possibile, nel frattempo, schierare equipaggi di tre piloti.”
Vanes Francini invece continuò, ma questa è un’altra storia, oltre che un’altra stagione e un’altra moto.
Foto Moto Journal
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