Monografia Ducati 916 – terza parte

Monografia Ducati 916 – terza parte

Questa volta, dopo tanta teoria, è ora di montare in sella e provare questa moto che ha segnato in modo indelebile il mondo delle moto sportive.

Negli articoli scorsi abbiamo analizzato la nascita e lo sviluppo della Ducati 916, la moto oggetto di questa serie di articoli monografici. Questa volta, dopo tanta teoria, è invece ora di montare in sella e provare questa moto che ha segnato in modo indelebile il mondo delle moto sportive.

Nella foto si può ammirare la linea morbida e sinuosa della 916 e di come carena e codone siano perfettamente accordate.

Forse, possiamo dire, è stata la prima hypersportiva, ovvero una moto che non presenti nessun compromesso: una moto da gara, ma con targa, frecce e specchietti! Ma è ora di salire in sella, siete pronti?
La prima cosa che stupisce, una volta alla guida della moto, è la linea rotonda e morbida del serbatoio, che molti, prendendo in considerazione anche il codone e la vista dall’alto nel suo insieme, identificano con le forme del corpo femminile; un’altra cosa che turba, di primo acchito, è la posizione dei semimanubri: mamma mia come sono in basso!

In effetti, l’abbiamo detto, siamo davanti a una moto che non conosce compromesso. Qualcuno, a suo tempo, aveva fatto notare che forse, per garantire un po’ di comfort, sarebbe stato meglio se i manubri fossero stati posizionati sopra la piastra di sterzo invece che sotto, ma tant’è, Massimo Tamburini decise così e, dal punto di vista della guida sportiva, aveva ragione lui.

Certo, se non siete troppo alti, perché se superate il metro e settantacinque avrete difficoltà a trovare la posizione giusta, considerata anche l’altezza delle pedane che sono posizionate anche molto avanzate, quasi al limite dell’abitabilità: se provate a mettere le mani sulle manopole e porre un piede sulla pedana scoprirete subito, anche da fermo, quello che offre e richiede la 916.

Una moto per piloti non troppo alti

Se non siete troppo alti, appunto, vi sentirete perfettamente inseriti nella macchina, essere un tutt’uno con lei, altrimenti la sensazione sulle prime potrà turbare, tant’è che avrete difficoltà anche a spostare il piede per assecondare i movimenti della guida sportiva!

Non è un caso se, soprattutto in Germania e negli USA, si assistette a delle deplorevoli modifiche della moto, con l’installazione di manubri più alti: deplorevole, ma perdonabile per chi, proprio per un problema di altezza, non riesca a far parte della moto.

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É sotto gli occhi di tutti come, dal punto di vista del design, la 916 sia praticamente perfetta, come dimostra il fatto che dia il meglio di sé con una livrea monocolore, senza gli zigzag e i pastrocchi cromatici delle quattro cilindri giapponesi del suo tempo.

Del resto, non stupiamoci, i semimanubri sono posti a un’altezza da terra di solo 850 mm tanto che pare che la sella sia posta più in alto! Dobbiamo però dire che si tratta di una prima impressione, in quanto poi, con l’esperienza, a meno di non essere dei giocatori di basket, si riesce a trovare una sistemazione idonea, abbracciando il largo serbatoio e cercando di rilassare gli avambracci, in modo da ottenere una postura meno rigida, togliendo carico dai polsi, così da apprezzare le doti dinamiche e la stabilità di questo purosangue sportivo italiano.

Insomma, la 916 richiede al pilota di modificare il suo stile di guida, pretendendo scioltezza e leggerezza nel gestire i fulminei cambi di direzione, ma anche la necessaria forza per gestire un mezzo decisamente diretto: in questo modo, la 916 diventa una sorta di estensione di chi la guida, fondendosi con il pilota in un tutt’uno che rappresenta lo stato dell’arte della guida motociclistica.

Data la posizione in sella, chi guida è in contatto diretto con l’avantreno, sensibile e pronto a rispondere agli input del pilota, così da sfruttare in pieno la solidità e stabilità di una moto che fa dell’ingresso e della percorrenza in curva i suoi punti di forza.

Ovviamente, un mezzo con queste doti dà il meglio di sé in pista, dove si dimostra capace di angoli di piega incredibili per una moto di metà degli anni novanta: ecco spiegato perché le pedane del pilota siano così alte da terra!
In questo contesto, poi, si sfrutta appieno la possibilità di inserirsi all’interno della raccolta carena, con un’impostazione di guida che è appunto pienamente razionale, niente di meno di quello che si potrebbe richiedere da un mezzo da pista.

La 916 è pensata per la pista

In effetti, la 916 è pensata per questo utilizzo, basti considerare il tachimetro separato che può essere facilmente eliminato, al forcellone monobraccio per l’agevole sostituzione della gomma posteriore, al fatto che sia, anche nel caso della versione biposto, a tutti gli effetti una moto pensata e ideata per ospitare il solo pilota. Fa infatti tenerezza pensare a quelle fidanzate, sicuramente innamoratissime del loro centauro, disposte a sistemarsi sul piccolo strapuntino, con le ginocchia in bocca, aggrappate al pilota con il terrore di volare via in caso di un’accelerazione troppo repentina in uscita di curva!

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I protagonisti della formidabile carriera agonistica della 916: in alto a sinistra, Troy Corser vincitore nel 1996; Carl Fogarty campione nel 1994 e 1995, e John Kocinski (sotto) che, nel 1996, pur facendo parte del team Ducati ufficiale, fu battuto proprio dal pilota australiano che correva per il team privato Promotor.

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Al netto di tutto ciò, in pista la 916 è l’arma perfetta, una spanna sopra tutta la coeva concorrenza a quattro cilindri.
In questa situazione, si poteva certo passare sopra la scomoda ergonomia del mezzo, visto anche che le sessioni in pista sono solitamente ridotte a poche decine di minuti.
Diverso il discorso per l’utilizzo su strada, dove è bene fissare una meta non troppo lontana e dotata di tante belle curve, sulle quali la 916 fa prevalere le sue doti. Consigliabile, in questo caso, viaggiare sempre indossando una robusta tuta in pelle per riparare le terga dal notevole calore scaturito dai due collettori di scarico che passano proprio sotto la sella.

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Uno sguardo così, allo stesso tempo fiero e cattivo, ce l’hanno poche moto.

I più spiritosi, poi, raccomandavano anche la frequentazione di una bella palestra per dotare la mano sinistra della necessaria forza richiesta dall’azionamento della leva della frizione, veramente notevole, che poteva effettivamente stancare, soprattutto nel caso di percorrenze cittadine, del resto assai poco consigliabili a prescindere.

Un altro piccolo problema risulta dal carico del corpo che grava sui polsi, tanto da rendere effettivamente complicato un lungo viaggio autostradale: in questo caso, dopo la prima oretta di viaggio, si impone la sosta a ogni autogrill disponibile per effettuare un po’ di stretching e rilassare le spalle!
Ma anche in questo caso, un po’ di esperienza poteva venire in aiuto, addossandosi sul serbatoio, così da rientrare il più possibile all’interno del piccolo cupolino per diminuire la sezione frontale offerta alla forza dell’aria, appoggiando gli avambracci alle gambe per alleggerire il carico sui polsi.

Di tutto questo, ovviamente, se ne sono sempre fregati i possessori della 916: del resto, è come se un ferrarista si lamentasse della scomodità o del rumore della sua 12 cilindri!

Giancarlo Falappa e la Ducati 916

Giancarlo Falappa, nato a Jesi nel 1963, debutta come pilota di motocross, dove vince, giovanissimo, il campionato italiano Cadetti. Nel 1987 debutta nella velocità in pista. Una rapidissima carriera vincente e dopo due anni è già nel Mondiale Superbike in sella alla Bimota con un esordio da paura; nel round inaugurale, con soltanto sei gare di velocità alle spalle, Giancarlo si impone in Gara-2, sulla pista di Donington.
Nel 1990, passa in forza alla Ducati, ma si infortuna seriamente in Austria, compromettendo in modo grave e permanente l’uso di un braccio; arriverà comunque undicesimo in classifica nell’anno del primo titolo mondiale per la Ducati. Nel 1991, resterà a digiuno di vittorie arrivando nono in classifica generale.
Nel 1992, fa la pole position nella gara inaugurale ad Albacete e ripete l’impresa in Belgio e in Malesia, tornando alla vittoria, con la sua prima doppietta, sul circuito austriaco che due anni prima avrebbe potuto essere il teatro del suo addio alle corse.

Falappa è più forte degli infortuni, ama la sua 888 e alla fine sarà quarto con 279 punti nel Mondiale SBK. L’anno seguente è primo in entrambe le gare di Brands Hatch, sotto la pioggia battente. “Mi vergognai per gli altri – ricorda il Leone di Jesi doppiai anche il settimo! Doppiare tutti fino al settimo è assurdo! Era una gara di campionato del mondo, non una della parrocchia. Io ho dato tutto me stesso, gli altri erano nelle mie stesse condizioni. Il secondo arrivato, Scott Russell, ha tagliato il traguardo con quarantotto secondi di svantaggio. Si correva sul bagnato, è vero, ma la pista era bagnata anche per me!”.

A fine campionato, Giancarlo, genio e sregolatezza, è quinto: la Ducati 888, seconda in campionato con Fogarty, va in pensione in quanto nel 1994 debutta la 916.

Fogarty e Falappa firmano le prime vittorie, tant’è che la conquista del titolo sembra un affare fra i due piloti ufficiali Ducati, fino a quel fatidico 11 giugno 1994 che pone fine alla sua carriera di pilota, ad Albacete, nel corso di una sessione di test privati, in sella alla 916: “Stavamo provando noi, la Honda e la Kawasaki – racconta Falappa – otto giorni più tardi, su quella stessa pista, si sarebbe disputata la quarta prova del Mondiale. Io venivo da una vittoria e un secondo posto a Misano ed eravamo in Spagna, a svolgere ulteriori collaudi per la messa a punto della 916. Dell’incidente posso raccontarvi poco, solo che sono volato via, picchiando duramente la testa”.

Giancarlo va in coma, in lotta tra la vita e la morte. Si tenta di stimolarlo in tutti i modi: Giovanni Di Pillo, in ospedale, gli fa ascoltare la registrazione delle telecronache che riguardano le sue gare più belle e alla fine Giancarlo ce la fa, esce dal coma e ha un obiettivo: tornare a correre! Si farà curare, si allenerà in piscina e in palestra, proverà a guidare di nuovo la moto, ma si dovrà convincere che la sua carriera di pilota è ormai finita. Termina così la carriera di un pilota amatissimo dai ducatisti per la sua grinta e generosità, quasi tutta effettuata in sella alla Ducati, di cui rimane testimonial.

La 916 è così bella e così divertente quando è nel suo ambiente che tutto passa nettamente in secondo piano; il motociclista evoluto, poi, non può che apprezzare le mille finezze corsaiole di questa moto e non era certo da visionari sentirsi Fogarty in qualche bella staccata.

Già, i freni! Anche in questo fondamentale comparto la 916 rappresentava lo stato dell’arte con i due imperiosi Brembo da 320 mm e relative pinze a quattro pistoncini che permettono modulabilità e potenza frenante in quantità.

Il tutto sostenuto da una ciclistica perfetta, equilibrata e armoniosa, dotata di un reparto sospensioni all’altezza della situazione: una robusta e affidabile Showa all’anteriore e un mono della stessa marca completamente regolabile al posteriore.
Il ruolo da protagonista, in questo frangente, lo svolge senz’altro il telaio, robusto e compatto, che permette alla moto di non scomporsi in nessuna situazione, neanche quando, nel bel mezzo della curva, si presenti qualche piccolo dosso o giunzione: nessuna indecisione o serpeggiamento a influire sulla corretta direzione degli pneumatici.

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La 916 è una delle poche moto che, da qualunque parte la si guardi, anche nelle prospettive più strane e curiose, rimane immediatamente riconoscibile: sono infatti tantissimi i particolari che la rendono unica, anche se poi la concorrenza si è sbizzarrita copiando molti dei suoi tratti distintivi. La sua eccellenza stilistica è stata tale che è rimasta praticamente immutata per tantissimi anni, dal 1993 fino al 2003, quando arrivò la 999. C’è da dire, comunque, che la successiva 1098 del 2007 era abbondantemente ispirata al suo stile, alla sua eleganza.

Il tutto, ovviamente, deve essere calibrato in modo che la moto abbia un setup adeguato, con le gomme in perfetto ordine e gonfiate alla giusta pressione. Come tutte le moto da gara la 916 esige di essere al 100% per poter dare il meglio.

Cosa dire poi di un motore ancora non dotato di quelle potenze stratosferiche a cui siamo abituati oggi, quindi sempre gestibile, dotato di una coppia sempre presente e piena dai 4000 giri in su, regime dal quale è un fulmine a raggiungere la potenza massima, con una progressione veramente notevole.

Di contro a questa sua caratteristica, probabilmente dovuta a una ridotta massa volanica, come si compete a un motore da competizione, una certa ruvidezza ai regimi inferiori, dove la 916 non è esattamente la moto più trattabile: ciò però non fa altro che confermare la concezione di moto progettata, sviluppata e prodotta con in testa un solo obiettivo, percorso perseguito in modo coerente per propulsore, ciclistica e impostazione di guida.

La velocità massima della 916 supera di poco i 250 Km/h, con i 200 Km/h scavallati già in quarta, con una buona progressione che continua piena anche nelle due successive marce, entrambe sfruttabili, tant’è che la punta velocistica si ottiene proprio in sesta.

In conclusione, è ovvio che siamo davanti a una moto di straordinaria personalità che richiede però il giusto apprendistato per esser capita e sfruttata al massimo, sempre ricordandosi che qui deve essere chi guida ad accordarsi a lei e non il contrario: solo così si può godere a pieno della sua immediatezza e sincerità, di sensazioni di guida uniche, dell’essere tutt’uno con un mezzo meccanico superbo; il tutto accompagnato dalla forza sonora dei suoi scarichi, un urlo sordo da vero solista che accompagna il crescendo rossiniano del ruvido, potente e ignorante quattro valvole desmo!

foto di Archivio Ducati e Alessio Barbanti per Electa

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