Per un preparatore ci sono molti modi per vendere una moto: chi la propone su internet, chi la offre ai suoi più generosi committenti, chi addirittura mette le mani avanti, realizzando solo special su commissione. Quello che ha escogitato Mike Watanabe della Union Motorcycles, con sede nell’Idaho (USA), è senz’altro originale: una lotteria a cui si poteva partecipare versando 25 dollari per avere così la possibilità di portarsi a casa, con una somma irrisoria, il gioiellino che vedete raffigurato in queste pagine.
Ma l’originalità di Mike va ben oltre ciò: il fatto è che la somma che è stata raccolta, l’estrazione si è svolta il mese scorso, è andata tutta in beneficienza: in una parola, si è accollato tutte le spese per mettere a disposizione della Re:acts (associazione no profit che si occupa della cura e del supporto di bambini in difficoltà in paesi come la Cambogia e la Tailandia) l’intera somma raccolta: un gesto di grande generosità!
Del resto, Mike è un personaggio particolare, sentite il suo racconto: “Sono andato in Tailandia per la prima volta nel 2005, a lavorare in una casa che ospita bambini discriminati e in difficoltà. In realtà, non ci volevo andare: mi sono convinto solo perché mia moglie e i miei due figli volevano vivere questa esperienza. Da allora, per me la prospettiva sulla vita è cambiata in modo drammatico. Ho vissuto una nuova definizione di amore e felicità. La mia famiglia è tornata là in molte occasioni, io addirittura 20 volte in 12 anni. Volevo fare qualcosa per gli orfanotrofi e le case dei bambini. Tutti i proventi di questa mia special andranno per l’alloggio, la cura, l’alimentazione e l’educazione di questi bambini, spesso vittime della schiavitù e della prostituzione. Sto semplicemente cercando di fare la mia piccola parte”.
Grande cuore, Mike!
Per raggiungere questo obiettivo, ha coinvolto il suo socio nella Union Motorcycles, ovvero Luke Ransom, e i fornitori abituali del suo atelier specializzato nella rivisitazione in chiave classica e café racer di modelli storici.
Certo, per fare il primo passo in questa direzione, mancava la protagonista, ovvero la moto: la buone sorte è venuta incontro nelle forma di un vecchio Scrambler 250 del 1966 veramente messo male: nessun timore, quindi, sul fatto di intervenire e modificare un modello storico, anche se non raro.
Una volta messa a posto la sua coscienza di bravo motociclista, Watanabe si è applicato nella sua opera smontando tutto quello che rimaneva del povero Scrambler: il telaio è stato liberato dei vecchi punti di fissaggio, modificato nella sua parte posteriore e nei supporti delle pedane. Successivamente sono stati saldati i nuovi punti di fissaggio per le varie staffe, supporti del codone e impianto di scarico.
Nella definizione dello stile, Mike ha seguito la seguente ispirazione: cosa avrebbe fatto un pilota amatoriale degli anni Sessanta per trasformare il suo Scrambler in una moto da corsa senza spendere una fortuna?
Da tale considerazione, ne è seguita, in modo naturale, la definizione dello stile, tenendo ben presente che non poteva certo utilizzare componentistica racing dell’epoca, visto che la moto doveva per forza di cose essere realizzata con un occhio di attenzione al budget, cosa che del resto avrebbe dovuto fare anche il nostro ipotetico rider di 50 anni fa!
Di conseguenza, le pedane sono state progettate e costruite per assomigliare a quelle standard in uso in quel periodo e lo stesso è successo per tutta l’altra componentistica, giusto per essere in sintonia con lo stile e le finiture rispetto alle moto da gara di allora.
Il campione delle pedane è stato realizzato tramite la tecnica della fusione in terra, per poi essere rifinito tramite macchine CNC e trattato termicamente, mentre la realizzazione delle sovrastrutture (con lo stesso design già utilizzato dalla Union Motorcycle per una precedente special, la Monza Gold) è stato affidato al loro storico fornitore, la GFTP di Portland; a completare l’opera, ecco la verniciatura effettuata gratuitamente dal loro amico John Hart.
Insomma, tutti hanno dato il loro contributo per far nascere questa piccola e aggressiva creatura il cui compito andava ben al di là di fare semplicemente bella figura: questo però non vuol dire che non ci si sia impegnati al massimo per realizzare una special che fosse all’altezza del buon nome di questa azienda americana.
Ecco, quindi, che il motore è stato completamente smontato, sabbiato e rigenerato con la sostituzione di tutte le guarnizioni e cuscinetti, così come è stato completamente rifatto l’impianto elettrico, installando l’accensione elettronica. Il motore ora respira meglio grazie a un cornetto di aspirazione libero, in più c’è un impianto di scarico completamente fatto in casa, con tubi di maggiore diametro e un terminale privo di silenziatore.
Del resto, sia Mike che Luke sono letteralmente innamorati del motore dello Scrambler in quanto, con la sua elaborazione, si possono ottenere le prestazioni di un Diana 250, affrontando però una frazione del costo.
Ducati Diana 250
Presentata ufficialmente nel 1961 al Motosalone di Milano, la Ducati Diana è il primo monocilindrico 250 a carter stretti che la Ducati produsse in versione unificata per tutta l’Europa.
Questo modello discendeva dalla 200 GT, dalla quale differiva solamente per la foggia più sportiva dei parafanghi, per la colorazione e per il motore maggiorato (capostipite della serie che avrebbe successivamente equipaggiato i vari Mark I e Mark III).
Questo modello fu prodotto dal 1962 al 1965 nell’unica colorazione blu metallizzato e argento; gli ultimi modelli avevano inoltre il cambio a 5 marce, anziché a 4. Le caratteristiche tecniche prevedevano un motore monoalbero a 4 tempi da 248 cc, alesaggio e corsa di 74 x 57,8 mm, rapporto di compressione pari a 8:1, potenza massima di 19,5 CV a 7550 giri, ruote da 18 pollici e freni a tamburo da 180 e 160 mm. L’alimentazione contava infine su un carburatore Dell’Orto UB24BS.
Per il mercato statunitense venne allestito anche un modello più spinto, con carburatore da 27 mm, denominato Diana Mark III, con varianti estetiche rappresentate dai parafanghi alleggeriti, l’eliminazione della cassetta porta attrezzi e porta filtro dell’aria, aggiunta del contagiri, del portanumero ancorato al faro anteriore e dello scarico a tromboncino.
Per il mercato estero in genere, la Diana venne commercializzata con il nome di Daytona 250, anche se era uguale in tutto e per tutto al modello destinato al mercato italiano.
Il concetto base lo ribadisce lo stesso Mike: “La moto è stata costruita con un budget limitato, quindi non abbiamo montato parti racing. Così, ad esempio, abbiamo utilizzato componenti provenienti da altri nostri progetti e anche le rifiniture non sono quelle a cui siamo abituati, ma quando si costruisce una moto destinata alla benificienza tutti i penny contano davvero”.
Per concludere il lavoro, ecco la verniciatura a polvere di tutte le parti in nero, l’installazione di nuovi cerchi, pneumatici e ganasce dei freni, mentre lo scarico e il cavalletto centrale sono stati realizzati internamente. Così è stato anche per i due parafanghi, che Mike ha modellato personalmente a mano, visto che non era soddisfatto di quanto disponibile sul mercato.
Non manca poi l’originalità su questa moto, basta montare in sella e guardare davanti a sé, alla piastra di sterzo: “Non potevo permettermi di utilizzare un supporto per il tachimetro di tipo racing su questa moto – afferma Mike – Così ho deciso di utilizzare una piastra di alluminio per posizionare lo strumento. Questo doveva essere molto lontano dalla piastra di sterzo per il corretto posizionamento dei cavi e il risultato finale mi piace, per quanto sia strano!“.
Il piccolo Scrambler è ora sotto i vostri occhi e la sua visione non lascia dubbi sul fatto di come Mike abbia sicuramente impiegato molto del suo tempo per realizzare una Ducati che attirasse l’attenzione del pubblico, così da incrementare il più possibile il numero dei partecipanti alla sua inusuale lotteria.
Non ci resta che sperare che il suo fortunato proprietario (pensate, 25 dollari per diventare proprietari di una simile moto!) sia in grado di apprezzare la cura e l’attenzione che è stata riposta per la sua creazione, nonché le buone intenzioni che sono alla base della sua realizzazione.
Comunque sia, tanto di cappello Mike; anzi, per dirla all’americana: “Hats off”!