Quella che vi raccontiamo è la storia di una grande passione. Avremmo voluto narrarvi, almeno questa era l’intenzione iniziale, le gesta di Stefano Caracchi in sella alle moto di Borgo Panigale, analizzandone, come è accaduto spesso su queste pagine, le gare, le vittorie e anche le sconfitte.
Ma questo non è stato possibile, perché ci siamo imbattuti nella passione vera di un uomo che ha portato i toni della conversazione a livelli più alti, più interessanti, sfociando oltre i confini dei risultati e invadendo territori più ampi e sfaccettati.
Stefano Caracchi, figlio di Rino, ma anche (è lui stesso a dirlo) un po’ figlio di Franco Farné e di Giorgione Nepoti, ci ha fatto immergere negli ambiti della passione vera, quella per le corse e per la Ducati.
Non siamo riusciti a tenere un filo cronologico delle gare e dei risultati e questa è la fortuna di questo articolo. “Mi metti in mezzo ai piloti seri? Io non sono mai stato un pilota serio! – inizia schernendosi Stefano – La mia prima esperienza in assoluto in sella a una moto di Borgo Panigale credo sia stata la 8 Ore di Misano, con la Ducati 900 a coppie coniche, in coppia con Aldrovandi, mi pare nel 1983, e sono caduto quasi subito. Aldrovandi ha dovuto fare tutta la gara da solo perché mi ero fatto male alla clavicola. Poi c’è stata la Cobas che avevano dato a Garriga e la 750 F1 che avevano dato a Kenny Roberts per i test che fece a Misano. Con quella corremmo in coppia io e Walter Cussigh.”
Era il 1985 e la coppia si tolse delle belle soddisfazioni a livello nazionale, vincendo nel campionato Endurance le due gare sul circuito di Misano.
Poi la grande avventura nella Battle of the Twins di Daytona: quarto all’esordio e poi due volte secondo. Il giovane Caracchi, però, è attratto dal mondo delle moto a due tempi: “Per un ragazzo di vent’anni le due tempi rappresentavano un richiamo che le Ducati non avevano. Non era una questione di moto, quanto semmai del rilievo che poteva avere un campionato piuttosto che un altro. Le 125 e le 250 correvano il Mondiale, mentre le Ducati le gare della TT1, TT2 e altre categorie che io consideravo minori. Così, le mie apparizioni in sella alle moto di Borgo Panigale erano sporadiche e affrontate con meno convinzione. Pensa che a me, che per via della NCR avevo la casa piena di Ducati, davano le moto peggiori, riservando quelle buone ai piloti che affrontavano i campionati in maniera più seria. Il Mondiale Superbike non esisteva, altrimenti avrei concentrato i miei sforzi lì e sono convinto che avrei avuto probabilmente una bella carriera. Del resto, ero nato proprio nella famiglia giusta. E’ stata una questione di mancata concordanza di tempi: il Mondiale SBK è nato quando io, ormai, stavo per smettere di correre.”
Stefano spiega ancora meglio il concetto: “Avevo iniziato in 125 e per me la 250 rappresentava quella che per un ragazzo di ora rappresenta la MotoGP. Vedevo i piloti che vincevano le gare F1, la classe che poi sarebbe diventata la Superbike, arrivare parecchio dietro di me in 250. Per questo dicevo a mio padre Rino che quello della 250 era un campionato più difficile, più competitivo, e io volevo concentrarmi su quello.”
Caracchi, forse, non si sbagliava, confidando anche nei buoni risultati che riusciva a ottenere, nonostante guidasse moto non certo al top: nel Mondiale 125, nel 1983, finirà quattordicesimo, con 19 punti e un terzo posto in Jugoslavia con la MBA.
Nel 1984 sarà settimo, con 29 punti, sempre in sella alla MBA. In 250 non andrà altrettanto bene: con la Honda sarà venticinquesimo con un punto nel 1987, ventiduesimo con 20 punti nel 1988 e trentunesimo nel 1989 con nove punti.
Viene da domandarsi se, nato e cresciuto a pane e NCR, nessuno tra suo padre, Nepoti o Farné abbia mai cercato di spingerlo a correre con la Ducati con convinzione: “Mi hanno sempre aiutato a fondo perduto, – risponde Stefano – non solo mio padre, ma anche Giorgione e Franco. Tre persone eccezionali: avrebbero potuto quasi obbligarmi a correre con le Ducati e invece venivano ad aiutarmi, fino ad arrivare a prepararmi i motori a due tempi e lavorando di notte sulla mia MBA. Anche la moto a due tempi me la pagava mio padre. Se avesse voluto, avrebbe potuto dirmi: o corri con la Ducati o niente. Invece mi aiutava. La passione assurda che avevano per le moto li portava a fare quello che non avevano mai fatto o che avevano fatto solo in casi rarissimi. Con il senno di poi, posso dire che nella mia avventura con le due tempi non ho mai avuto la moto giusta e invece, se mi avessero obbligato a correre con le loro moto, avrei sempre avuto la moto più competitiva. Tuttavia, stiamo parlando di tre personaggi troppo buoni, troppo appassionati e troppo disinteressati. Le volte che ho corso con la Ducati è perché mi portavano con loro e mi facevano fare la riserva. Se tutto filava liscio, ero lì ad aiutarli nel box, se qualcuno cadeva e non poteva prendere parte alla gara, allora mettevano in sella me. Mi piaceva correre con la Ducati, solo che era una moto che non guidavo quasi mai e così per me era più facile cadere. La sfiga è stata quella che la Superbike non esisteva. Bisognava che il mondiale delle derivate di serie fosse nato prima perché io avessi più fortuna.”
E’ vero, si correva in campionati minori, ma oggi sono proprio le vittorie della Ducati a riportare alla ribalta piloti e squadre che vi furono impegnati: “Questo è vero, però a quei tempi Cadalora e Kocinski erano dei piloti con più fascino di quanto non lo fossero Dunlop e Marshall. Non dico che le gare non fossero belle e tirate, andavo a vederle e mi divertivo da matti, però il richiamo del mondiale a due tempi era più forte. Così, tanto per dire, a Stéphane Mertens, che era quasi per vincere un Mondiale F1, io davo spesso la paga in 250. Poi i circuiti dove si correva erano pericolosi!”
Quando correvo, il Mondiale SBK non esisteva, per cui scelsi di concentrarmi sulla 250…
La conversazione è estremamente piacevole, appassionata e scorre nella maniera più libera possibile.
Caracchi, nonostante il rammarico di essere stato un pilota in anticipo rispetto all’inizio folgorante del Mondiale Superbike, ha fatto in tempo a prendervi parte, all’inizio, con la 851. Era il 1990: diciassette punti e 31° posto finale, in sella a una 851 un po’ datata.
Lo ritroviamo nelle classifiche anche nel 1994: tre punti e 56° alla fine. Tuttavia, non sono questi i dati importanti.
Ci siamo poi fatti raccontare i dettagli di una delle spedizioni a Daytona, quella del 1987: “A quei tempi avevo uno sponsor storico, Compagnucci, che mi appoggiava da tempo in 125 e 250. Era stato deciso che Lucchinelli partecipasse alla Battle Of the Twins, seguito da Farné, con una delle primissime 851 a quattro valvole. L’idea di andare su anche noi venne a Giorgione Nepoti, ma fu condivisa subito da tutti, sponsor compreso. Eravamo un bel gruppo di amici: c’era mio fratello, i ragazzi dell’officina, Compagnucci: la prendemmo come una vacanza! Le cose vennero fatte come si faceva di solito quando dietro non c’era la Ducati: i biglietti aerei, gli hotel, fu tutto pagato di tasca dalla NCR. Era un bel sogno ed era la prima volta in assoluto che andavo in America.”
Un bel sogno che avrebbe potuto avere risvolti anche più eclatanti: “Sì, fummo vicinissimi a vincere! Ero dietro a Marco, molto vicino, cadde un pilota in una curva parabolica e perse dell’olio. Marco era davanti, lo vide e frenò di brutto. Io, subito dietro, non vidi nulla e passai sull’olio come un disperato. Non solo non caddi, ma lo superai e mi avvantaggiai, continuando a tirare. La gara venne fermata e la classifica tenuta per buona fu quella del giro precedente, con Lucchinelli primo e io secondo. Non fu un grande rammarico, perché sapevo bene che lui era più veloce di me. Finì come doveva finire, anche per la Ducati, che non si dovette trovare nell’imbarazzo della moto a quattro valvole sconfitta da quella a due.”
Stefano ne ha di aneddoti da raccontare e, una volta di più, parla del fantastico trio della NCR: “Mio padre, Giorgione e Farné sono state delle persone fantastiche, di quelle che, nelle corse di oggi, si fa veramente fatica a ritrovare. Gente che faceva le corse per passione al novanta per cento, e per interesse al dieci. Molte volte, Farné (che era a capo del Reparto Corse Ducati, ndr) e Giorgione mi compravano i pezzi pagandoli di tasca loro. Li vedevo arrivare con uno scarico, un radiatore, lavoravano gratis per comprarmi i pezzi! E non solo per me, che ero il figlio di Rino: l’ho visto fare cento volte! Erano loro gli sponsor, i protagonisti veri: quello che mancava, lo costruivano. Sono diventati così bravi anche per questo: quando mancavano i soldi, si doveva lavorare con le mani!”
Stefano racconta un episodio su tutti: “Il kit che la Honda mi regalava perché non avevo i soldi per comprarlo aveva un albero motore da sostituire dopo un certo chilometraggio. Mi dissero che era tassativo. L’albero nuovo costava otto milioni di lire, che io sapevo che non avrei mai trovato. Detto fatto: raggiunto il limite, il motore cominciò a vibrare; andava aperto e sostituito l’albero. Sul kit c’era scritto che assolutamente non andava smontato, perché era impossibile da rimettere a posto, dato che aveva i perni di manovella piantati per interferenza. Non avevamo i soldi, così Giorgione, che faceva alberi motore per Ducati da sempre, con le mani, lo aprì, fece i rasamenti e lo rimontò. I rasamenti Honda non esistevano in commercio, fu lui a riprodurli tali e quali. Con quel motore feci l’undicesimo tempo in prova in Inghilterra, fu uno dei migliori motori che avessi mai avuto. I giapponesi vennero da noi dicendo che era impossibile che il motore funzionasse. Mi obbligarono a smontarlo, mi regalarono un albero nuovo e quello messo a posto da Giorgione se lo portarono in Giappone. Giorgione, mio padre e Franco erano persone abituate a fare i miracoli!”
L’affetto che lega Stefano a quei tre personaggi è immenso, prova ne sia che, in diverse circostanze, anche fuori dalle gare, è capitato di chiamarlo al cellulare e di sentirsi dire: “Vuoi salutare Farné? E’ qui con me.”
Stefano Caracchi: la carriera da manager
Smessi i panni del pilota, Stefano Caracchi ha intrapreso una carriera da team manager: “Mi sono levato soddisfazioni che da pilota non ho avuto; – racconta – tutte quelle che avrei voluto vivere io. Quando si diventa manager dopo essere stati piloti, si sa quello che manca meglio di chi il pilota non l’ha mai fatto. Si riesce ad avere un quadro più completo della situazione, sia a livello tecnico che umano. Si riesce a capire che cosa chiede un pilota anche se sta zitto.”
Una sensibilità nel capire e motivare il proprio pilota che non ha regole fisse: “Ho avuto la fortuna di avere tanti buoni piloti, che io prendevo quando erano nel momento peggiore della carriera, riuscivo a motivarli di nuovo, a far loro ottenere dei risultati che li rilanciavano, così li perdevo di nuovo e tornavo ad avere problemi di budget, perché perdere un pilota che fa risultati significa anche perdere gli sponsor. Prendere poi ancora uno che è rimasto a piedi voleva dire complicarsi la vita, perché devi trovare i soldi per far correre uno che non è andato bene.”
Stefano parla al passato, adesso che non è più in prima linea, forzatamente: “L’ho fatto per tanti anni, ed ero felicissimo, finché è diventato impossibile, vuoi per i costi sempre più alti, vuoi per fregature continue sempre in agguato nell’ambiente. Con le corse non sono diventato ricco, anzi, ci ho rimesso, per cui ho dovuto fare uno stop forzato. Se ne avessi avuta la possibilità avrei continuato, perché le soddisfazioni sono state enormi e avrei continuato con Ducati.”
Cosa avrebbe da offrire, in termini di esperienza, Stefano Caracchi se qualcuno gli desse ancora una possibilità? “Penso che già l’esperienza stessa rappresenti un grande valore. Poi, certamente non saprei dire se sarei bravo a fare questa o quella cosa. Posso mettere senz’altro a disposizione di un team l’esperienza che ho nei rapporti umani, che è una cosa fondamentale. Se non fai gruppo, se non motivi il lavoro di ognuno, se non stimoli il pilota dandogli le sicurezze che cerca, la squadra non funziona. Prendi McCoy: siamo riusciti a dargli nuovi stimoli dopo che era approdato a una categoria meno importante, facendogli capire perché doveva arrivare a vincere anche lì. Io questo lavoro lo farei ancora, soprattutto per la Ducati, ma lo farei per un team che non avesse problemi a sopravvivere, perché mi sono un po’ stancato di soffrire. Io ho sempre anteposto la passione, ho sempre cercato di finalizzare tutto al risultato e, per questo, sono stato più vulnerabile di chi lo fa per soldi. Ho fatto come quando correvo, che spendevo tutto quello che avevo per andare forte. Così, anche come manager, ho sempre cercato il pilota migliore, i tecnici che mi piacevano, anteponendo la passione all’interesse. Così, quando i soldi sono pochi, non si sopravvive. Adesso, quindi, tornerei a lavorare nelle corse, ma non lo farei più con una squadra mia.”
Foto Archivio Caracchi e Micro e Mega