Bayliss lascia e lo fa da campione. Non è più tempo di girare il pianeta: adesso è ora che la sua famiglia riscuota il credito che, seguendolo per i circuiti di mezzo mondo, gli ha accordato fin dall’inizio della sua avventura.
Troy Bayliss appende il casco al chiodo, restituendosi a tempo pieno ai doveri di padre e di marito.
Il binomio Bayliss-Ducati nasce nel 2000, quando l’azienda bolognese cerca in fretta e furia uno che sapesse sostituire Fogarty, seriamente infortunato. Non era facile.
Dalla rosa dei nomi dei possibili candidati, spuntò fuori Bayliss, il ragazzo con la valigia. Con poca esperienza, Troy seppe conquistare la fiducia dei vertici di Ducati Corse, nonostante una gara d’esordio in Giappone a dir poco disastrosa sotto il profilo del risultato: due manche concluse con altrettante cadute.
Un altro sarebbe stato rimandato a casa senza prova d’appello, ma evidentemente chi scrutava ed esaminava quel ragazzo australiano dal sorriso pronto seppe vedere oltre. Forse perché, già da subito, lo spessore tecnico e umano di Troy era qualcosa di percepibile.
Così, sulla moto rossa che già allora portava il numero 21, a Monza ebbe la possibilità di far vedere chi era veramente: da quinto a primo alla staccata della prima variante, roba da pelle d’oca a pensarci anche adesso, a distanza di anni.
Quello che ha saputo essere deriva da quello che è stato in grado di fare.
Australiano, di Taree, la prima volta che preparò la valigia per venire a correre in Europa era già sulla soglia dei trent’anni. Riuscì a mettersi in luce, correndo nella Superbike inglese, facendo vedere al mondo di che pasta era fatto: nel 1999, il titolo britannico della Superbike è suo.
Impeto e assalto, coraggio da vendere e generosità spinta oltre ogni limite: questo è Troy all’inizio e questo è quello che Troy è ancora adesso. C’è di più: Bayliss è un puro, uno che in pista e nella vita non fa calcoli, uno che agisce d’istinto, sempre leale, senza malizia e secondi fini.
E’ per questo che è stimato da tutti. Tre titoli mondiali in Superbike, tre titoli a cavallo di tre diverse generazioni di Ducati da corsa: la 996 (declinata poi nella versione 998), la 999 e la 1098.
Sì, voleva raggiungere questo risultato e c’è riuscito. Per se stesso, non per compiacere gli altri, e per la Ducati, certamente identificata da Bayliss nel gruppo di persone che dapprima gli ha accordato fiducia e poi ha lavorato con lui, duramente.
A Borgo Panigale, questo australiano dagli occhi chiari rappresentava più che mai una sorta di scommessa e lui, solo lui, ha fatto sì che venisse vinta. Questione d’onore.
Bayliss ha vinto il primo titolo nel 2001, riuscendo a emergere come miglior talento nella battaglia sportiva portata avanti per tutta la stagione con i compagni di marca: Ben Bostrom in forma smagliante e il Ruben Xaus migliore che si sia mai visto fino a oggi. Non era facile, bisognava possedere una condizione unica imprescindibile: essere Troy Bayliss.
Avrebbe potuto vincere il titolo anche nel 2002, sarebbe stato perfetto, ma in quella stagione, la perfezione fu raggiunta nella gara finale che lui e Colin Edwards seppero condurre a Imola.
Vinsero l’americano e la Honda. Però, questo pareva aver perso importanza: ciò che contò quel giorno fu che la storia della Superbike si arricchì di una delle più belle pagine di sempre.
Sul podio sembrava che quei due, un tutt’uno con le loro moto per circa quaranta minuti in Gara-2, stentassero a riprendere la capacità di articolare normali movimenti umani, dopo che gambe, braccia e il resto del corpo erano diventati parte integrante della ciclistica dei loro mezzi.
Per Troy, nel 2003 si aprirono le porte di un nuovo mondo: la Ducati debuttava in MotoGP e lui, con Loris Capirossi, ne era l’alfiere. Il numero dodici campeggia sulla carena rossa del la sua moto al posto del ventuno.
L’esordio fu buono: seppe tenere il passo di un compagno di squadra certamente più esperto. Alla fine ottenne Il sesto posto con 128 punti raggiunti anche grazie a tre podi. Quel mondo, tuttavia, forse troppo esasperato sotto tanti aspetti, non era casa sua.
La stagione 2004, corsa ancora con la Desmosedici, si rivelò avara di soddisfazioni, anche per colpa di una moto che pareva l’ombra della bella sorpresa dell’anno precedente.
Quando Bayliss salì sul podio, nella gara finale di Valencia, era già di fatto un ex pilota Ducati. Il terzo posto fu una questione di orgoglio.
A Troy era stato proposto di tornare a correre in Superbike, ma lui sentiva di avere un conto da regolare con la MotoGP.
Troy è l’unico pilota che ha continuato a essere appoggiato dai ducatisti pur passando a un’altra marca.
Nel 2005, quando ancora i clamori della protesta dei ducatisti contro la sua estromissione dalla squadra non si erano spenti, scelse di salire sulla Honda della squadra di Sito Pons.
Troy aveva già fatto breccia nel cuore di tutti gli appassionati, era una bandiera che si era scelto di ammainare e questo, ai ducatisti, non andò giù.
Tuttavia, l’esperienza in sella alla moto giapponese non permise all’australiano di regolare i conti con quella categoria che, anzi, sentiva sempre meno sua.
Tanti appassionati seppero sostenerlo anche in quel frangente, dividendosi nel tifare fra la Ducati e il pilota.
Magia di Bayliss, che si fa amare dai ducatisti anche in sella alla Honda: in queste proporzioni non era accaduto neanche per King Carl Fogarty, quando l’inglese aveva lasciato la rossa per la Honda nel 1996. Bayliss è ormai più popolare dell’inglese di Blackburn.
Dalla stagione 2005 Troy esce ferito nel morale e nel fisico, a causa di un infortunio che gli impedirà di disputare le ultime gare. In Ducati, intanto, si lavora per riportarlo nella sua dimensione naturale: gli si offre di nuovo la moto per tornare a gareggiare in Superbike.
L’australiano questa volta non rifiuta: accetta la 999, moto che dirà poi di aver amato più di ogni altra, e torna a casa, dimenticandosi gli impegni troppo schematizzanti della MotoGP, le confusioni tecniche nelle quali era spesso incappato e riassaporando finalmente la maniera di correre che ama di più: dare gas, senza tanti problemi, e arrivare primo sotto la bandiera a scacchi.
In più, particolare al quale tiene, può di nuovo esibire il suo numero, il ventuno, sulla carena: scaramanticamente, non lo abbandonerà più. Vince il secondo titolo, correndo come sulle uova in Gara-1 a Imola, per liberarsi poi in una cavalcata vincente e determinata in Gara-2.
Troy è tornato e ha chiesto a Imola ciò che a Imola aveva lasciato nel 2002. Con l’ideale corona in testa, pretende di regolare i conti con tutti e riesce a farlo anche con la categoria dalla quale era uscito senza le soddisfazioni che si aspettava: la Ducati lo coccola e ha per lui una Desmosedici da usare nell’ultima gara della stagione MotoGP a Valencia.
Tutta la sua squadra si è meritata questa sorta di master: Ernesto Marinelli, Davide Tardozzi e tutti gli altri sono con lui, a vivere quel weekend esaltante.
Bruno Leoni ha avuto modo di raccontarci che genere di animale da gara si sono trovati nel box in quell’occasione: non c’erano strategie, non c’erano set up particolari, c’era una gran voglia di dare gas, scendere in pista e non fare prigionieri. E così fu: Bayliss pretende soddisfazione dagli avversari di un tempo, dalla MotoGP, e fa sua la gara.
Questione d’onore e onore al campione della Superbike.
Nel 2007, la 999 è ormai arrivata al limite dello sviluppo, ma, infortuni a parte, Troy è sempre lui (basta riguardare la gara corsa in Francia): deve però soccombere a Toseland e alla sua Honda.
Ha ricevuto offerte da capogiro per correre anche nel 2009, ma Troy è uomo di parola…
La 1098, una nuova moto, una nuova sfida lo aspetta. La nuova Ducati sarà il mezzo con il quale riuscirà a compiere il suo disegno: vincere il titolo con tre generazioni di Superbike di Borgo Panigale differenti, il resto è storia.
Adesso Troy lascia, abbandonando sul tavolo, da uomo vero, offerte da capogiro per restare ancora almeno una stagione. Tuttavia, una promessa fatta alla famiglia è una promessa che va mantenuta: questione d’onore.
Grande uomo, grande cuore, grande manico, grande Bayliss!
foto Ducati Corse
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