Nei secoli fedele alla Ducati, come il motto dei carabinieri, Franco Farnè non ha mai potuto sopportare il prototipo di un motore a quattro cilindri che teneva relegato sotto un bancone. “Quel” prototipo! Lui, anima del reparto esperienze, provava per quel propulsore nato all’esterno lo stesso sentimento di un marito costretto a ospitare in casa l’amante della moglie: non aveva tutti i torti!
Il vulcanico Claudio Castiglioni lo aveva commissionato alla HPE Ferrari, l’engineering di Maranello, e adesso era lì perché lo sviluppassero quelli di Borgo Panigale; siamo all’inizio degli anni Novanta e Castiglioni stava acquistando a tutto spiano: nel 1985 la stessa Ducati, poi Moto Morini e Husqvarna nel 1987, nel 1992 il marchio MV Agusta.
Proprio dalla Morini, da un anno, nel 1990, era arrivato Luciano Negroni, responsabile del Reparto Esperienze e Sviluppo Motori e Veicoli di Serie, inquadrato in Ducati con lo stesso incarico. L’uomo perfetto per il quattro cilindri: tecnicamente preparatissimo, tra i suoi fiori all’occhiello lo sviluppo della 500 Turbo, ma non così saldamente legato alla Ducati, quindi più tollerante verso il 750 cc “straniero”.
“Farnè mi disse che era fermo da due anni sotto quel banco e non ne voleva sapere – ricorda oggi Negroni –. Così l’ingegnere Massimo Bordi lo affidò a me. Ce n’erano due esemplari già montati dalla Ferrari più i ricambi per assemblarne un terzo”.
Nonostante il blasone, però, era un motore tutt’altro che rivoluzionario.
“Sì, non aveva particolari elementi innovativi – concorda Bordi, a quel tempo Direttore Generale – Era nato in collaborazione con la HPE Ferrari e Luigi Mengoli, a capo del reparto disegno e progettazione, aveva dato un grosso contributo per quanto riguarda il basamento. Come riferimento era stato preso il motore Yamaha 750 a cinque valvole per cilindro, ma era stata preferita la più collaudata soluzione a quattro valvole. Era un motore molto tradizionale, l’unica vera particolarità erano le valvole radiali, una soluzione di derivazione automobilistica adottata su indicazione della Ferrari”.
Ma lavorare con il mondo delle quattro ruote di alto livello significava confrontarsi con i suoi metodi di lavoro, e il buon Negroni se ne accorse fin troppo presto: “Volevano sapere tutto quello che succedeva, passo dopo passo: ogni volta che il motore veniva acceso bisognava telefonare alla Ferrari. Loro lo avevano già provato al banco naturalmente, io no ed ero curiosissimo, quindi cominciai subito”.
Subito, ma non prima di avere ricevuto indicazioni scrupolosissime dall’Engineering: non bisognava superare i 5000 giri e dopo le prime due ore telefonare. Mah!
“Adesso smonta il coperchio delle teste, guarda qui, guarda là”.
Poi, due giorni dopo, altre due ore a 6000 giri. La frizione cominciava a slittare, Negroni tolse il pistoncino del comando idraulico che a caldo puntava e tutto funzionò bene, tranne che: “Non dovevi smontarlo, non c’eravamo noi”.
Il buon Negroni esplose e chiamò Castiglioni: “Quelli non mi fanno lavorare. In una settimana mi hanno fatto fare un mezzo ciclo a 5000 giri e un mezzo ciclo a 6000. Scherziamo?! L’obiettivo è girare a 14.000”. “Te la senti?”, rispose la voce all’altro capo del telefono.
“Non si preoccupi, ci penso io. Siccome ho visto che i prezzi dei ricambi sono altissimi, me li faccio fare dai fornitori Ducati, oppure me li faccio io in attrezzeria e vedrà che andranno anche meglio”.
Il “Signor Claudio” dette il suo benestare, il tecnico fece la prima prova al banco per leggere la potenza e restò di stucco: 19,8 Cv a 9000 giri. Molto meno di un 125 cc!
Castiglioni da una settimana chiamava per avere notizie e rimase perplesso. Vennero quelli della Ferrari, analizzarono tutto e a loro volta fecero la prova: 19,8 Cv, preciso come un orologio.
“Aspetta, vediamo cosa fare e poi ti chiamiamo”.
Due giorni dopo non si era sentito ancora nessuno e fu Castiglioni a decidere. “Fai quello che vuoi, mi sono rotto!”, disse. Così cominciò lo sviluppo, tanto che con l’aiuto dell’ing. Zacchè vennero rivisti gli alberi a camme.
“Arrivammo in fretta a 120 Cv quando il motore Ducati 851 ne faceva 125, e lo sapevo bene perché lavoravo anche su quello e i miglioramenti andavano in parallelo. L’ingegner Bertoni arrivò a 136 Cv con il motore che doveva andare a Daytona, io due giorni dopo con il quattro cilindri arrivai a 135,5”.
Tutto sembrava procedere bene, invece mezz’ora dopo arrivò la doccia fredda di Bordi: “Quel motore deve fermarsi! Toglilo dal banco prova”.
Negroni ci rimase male: il risultato era già lusinghiero e c’erano ancora un migliaio di giri da sfruttare per crescere ulteriormente, ma Bordi sapeva quel che diceva: “Come ho già spiegato quel motore non aveva niente di innovativo, c’erano solo le valvole radiali e per giunta erano qualcosa che il grande pubblico faticava a percepire. Perdipiù i cavalli erano pochi. Per la moto esclusiva che Castiglioni aveva immaginato ci voleva ben più della scopiazzatura di un quattro cilindri Yamaha. Quindi chiesi che venisse portato a 860 cc e feci girare le teste di 180°, in modo che gli scarichi fossero rivolti all’indietro. L’ingombro dei tubi, minore rispetto a quello dei corpi farfallati, avrebbe permesso di fare un telaio più stretto nella parte posteriore, mentre una presa d’aria dinamica avrebbe garantito un maggior afflusso di aria fresca all’aspirazione”.
Negroni e i ragazzi del suo gruppo di lavoro intervennero velocemente e in sei settimane fu allestito tutto e anche di più!
Ricorderete che i motori consegnati a Borgo Panigale erano due: Negroni fece le modifiche sul secondo, ma sottobanco continuò a sviluppare anche il 750, lo montò sul telaio di una Cagiva da Gran Premio cui erano stati aggiunti i fanali e cominciò i test su strada. Spesso alla guida era lo stesso Negroni che sfruttava i viaggi casa-lavoro per i collaudi.
Non passò inosservato: nell’autunno del 1993 venne fulminato due volte dai fotografi lungo il percorso e la notizia del misterioso prototipo Ducati-Ferrari finì sui giornali.
Intanto cresceva anche il motore 860, che era arrivato a 150 Cv; l’ingegner Bordi chiese al giovane ingegnere Claudio Domenicali, oggi amministratore delegato dell’azienda, di studiare il telaio.
“Venne fuori una cosa particolarissima – è Negroni a parlare – lo chiamavamo Il Pesce Martello perché il cannotto finiva al centro di una traversa che faceva da scatola di aspirazione, e sembrava appunto la testa di quel pesce. Il doppio trave superiore era sagomato a “S”. Arrivò in Ducati contemporaneamente ai cinque prototipi della 916, che erano stati fatti a San Marino da Tamburini. Io presi carena, serbatoio e sella da uno di quelli e li adattai al quattro cilindri, lasciando il resto a Farnè perché serviva per lo sviluppo della moto da competizione”.
Anche per questa seconda versione della quattro cilindri cominciarono i test su strada e quelli di affidabilità, venne addirittura organizzata una prova comparativa con la 750 sulla pista del Mugello, ma saltò a causa del maltempo.
La 860 stava dando risultati interessanti, ma l’ufficio tecnico dovette modificare la trasmissione dell’alternatore che girava troppo velocemente.
“Ne venne fuori un disegno assurdo, il coperchio laterale aveva una forma a chitarra tant’è vero che proprio così lo chiamavamo, “a chitarra”. Al banco funzionava ma era bruttissimo da vedere”.
Castiglioni da Varese telefonava tutte le mattine, perché teneva molto a quel progetto che faceva capo alla “sua” Cagiva: “Come andiamo?”.
“Nelle prove di affidabilità molto bene. Però il motore è brutto che non si guarda”.
“Cosa? Vengo giù a vederlo di persona!”.
Lo fece davvero.
“Cos‘è questa roba? – sbottò appena arrivato a Bologna – Basta! Da oggi il motore deve andare su in Cagiva! Motore, moto e progetto tutto in Cagiva!”.
Diceva sul serio: nel giro di sei mesi Negroni dovette consegnare tutto a Varese, e non al reparto sviluppo prototipi, ma alla Cagiva Corse, dove l’ingegnere Roberto Goggi rifece buona parte di quel motore, tenendo solo alcune cose: l’imbiellaggio completo, i pistoni, le teste con le valvole radiali.
Una conclusione sorprendente, dettata da un temperamento umorale? Non siate frettolosi nel tirare le conclusioni. Non era uno scatto di ira quello di Castiglioni, bensì il passaggio conclusivo di un progetto che da tempo stava portando avanti segretamente: non lo aveva detto a nessuno, ma sin dall’inizio quel motore era destinato a una Cagiva.
O meglio, alla prima MV, la F4, quella che avrebbe rilanciato il marchio acquisito dal conte Agusta. Perché, nonostante alla fine il motore sia nato a Varese e la ciclistica a San Marino nell’engineering di Massimo Tamburini, proprio questo significa la sigla che identifica la MV per eccellenza: F4 sta per Ferrari quattro cilindri.
Era sotto il naso di tutti. Ma chi lo avrebbe immaginato?